C’era una volta: centomila esseri umani

enola

(6 agosto 1945)

Vivevano ignari quella mattina; non fiduciosi, e nemmeno sperando: soltanto ignari che un aereo americano stesse volando verso di loro. Enola Gay era il nome dato all’aereo, ed era il nome della madre del primo pilota: Paul Tibbets.
La guerra in Europa era finita da tre mesi, soltanto il Giappone ancora resisteva per un mal risposto senso dell’onore e dedizione verso l’imperatore. Occorreva una azione dimostrativa che accelerasse la fine del conflitto.
Little Boy, così si chiamava l’oggetto che servì a scopo dimostrativo, fu sganciato alle 8.15 da 9.500 metri di altezza per dare il tempo all’aereo di allontanarsi, ed esplose 580 metri sopra la città. Dopo niente fu più com’era stato pochi istanti prima.
Sull’aereo, guardando indietro, l’equipaggio vide cosa realmente era quell’oggetto che avevano trasportato e poi sganciato.
Qualcuno disse: “Mio Dio, cosa abbiamo fatto”, e credo che sia la frase più significativa di tutta la faccenda.
Morirono in 78.000, le persone ferite furono un numero simile; molte donne incinte persero i loro bimbi e molte diedero alla luce esseri deformi. Gli effetti durarono anni, portando il conto delle vittime a 250.000 esseri umani.
Si sostiene che fu necessario per convincere l’alto comando nipponico che non avrebbero mai potuto vincere; si dice che fu una dimostrazione utile per calmare i bollenti spiriti di Stalin.
Il 15 agosto il Giappone si arrese, il 2 settembre firmò la resa a bordo della corazzata Missouri;
Il generale Douglas MacArtur rifiutò di stringere la mano agli emissari del governo nipponico.

Qualche tempo fa il Giappone ha fatto un gesto molto atteso dagli Stati Uniti: si è scusato per il proditorio attacco aereo su Pearl Harbour del 7 dicembre 1941.
Non ho letto da nessuna parte le scuse americane per i morti di Hiroshima e Nagasaki; vero è anche che quei centomila, che siano nel paradiso buddista o in qualsiasi altro paradiso, poco se ne farebbero delle scuse, ancorché sincere.

Erberto Accinni

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