C’era una volta: il campione

La_Coppa_dei_Campioni_di_Calcio_da_Tavolo

Non mi intendo di sport. La mia ignoranza non è però grave: se ne intende quasi tutta l’Italia, quindi lo sport va tranquillamente avanti anche senza di me; tanto tranquillamente che ci sono dubbi sul partito da votare alle elezioni, ma non sul fatto che i tanti corrotti delle discipline sportive debbano ricevere al massimo una reprimenda ma non certo il ritiro del cartellino e men che mai sanzioni disciplinari che li tengano assenti dal campo più di una giornata o due (sennò non ci si può alzare di scatto dal divano urlando la parola che libera da ogni frustrazione: Goal!).
In una Italia che chiede giustizia contro i politici infedeli, i calciatori che si vendono le partite, gli allenatori che fanno scommesse, gli atleti che si “dopano” sono quasi certi di passarla liscia, al peggio con risibili multe e una lavata di capo; ma Jim Thorpe, medaglia d’oro ai giochi olimpici del 1912 in Svezia nel pentathlon e decathlon, si vide ritirare le medaglie per essere stato giocatore professionista di baseball.
Non me ne intendo, l’ho detto, ma da qualche parte ho letto che Piola (o era Meazza? o qualcun altro?) al sabato prendeva il treno, raggiungeva la città dove doveva giocare, dormiva la notte in un alberghetto, la domenica giocava poi riprendeva il treno per essere al lavoro il lunedì.
Nei miei ricordi di non tifoso c’è una fotografia bianco e nero di Nereo Rocco seduto in cucina con un fiasco di vino sul tavolo; vino, non champagne ed escort (le nuove operatrici volontarie del sesso, le ex-prostitute, insomma. Costosissime).
Un altro ricordo di ragazzo era la notizia di un ciclista squalificato al giro perché dopato; era il primo caso che si sentiva e faceva scalpore. Dopo ricordo gli scandali che hanno coinvolto Baggio e Paolo Rossi, che però hanno concluso la loro carriera onorevolmente e molto stimati.
Perché questa indulgenza per l’idolo ma non per il politico corrotto? Non sono entrambi furti di stima e fiducia mal riposta?
Da sempre, credo, i campioni dello sport sono gli eroi dell’immaginario collettivo. Forse perché sono traguardi più raggiungibili di una laurea con centodieci e lode.
Di Coppi e Bartali da bambino sentivo parlare spesso. A Bartali si attribuiva addirittura il merito di aver salvato l’Italia dalla guerra civile dopo l’attentato a Togliatti del 1948; e chi non ricorda il goal di Rivera nel 1970 contro la Germania? e la corsa felice di Tardelli in Spagna nell’82 dopo il secondo goal alla Germania?
Anche se ne conosco soltanto alcuni, sicuramente molti sono gli episodi che li hanno consacrati alla memoria, rendendoli in alcuni casi di stimolo ed esempio.
E adesso veniamo a noi. Quanti campioni recenti abbiamo osannato come esempi da seguire? Pantani, il pirata: immortalato mentre piange come un bambino dopo il controllo antidoping? Cipollini: più o meno la stessa scena?
I calciatori del più recente scandalo, che negano disperatamente di aver venduto le partite?
Quanti – acclamati per il loro talento – hanno poi fatto cose da biasimare? Zidane: una testata a Materazzi; Tomba: uso del lampeggiatore per scopi personali (era brigadiere dei Carabinieri).
Che cosa ha fatto sì che il talento naturale – da ammirare – sia stato poi sporcato da episodi che lo hanno fatto precipitare nel disonorevole? L’illusione che essere campione nello sport possa estendersi anche all’esserlo nella vita?
Il bisogno della folla di avere eroi?
La larga indulgenza per le eccentricità in funzione del “regalo di un attimo”, che spesso è il vero bisogno dei fans?
Il peso della responsabilità, insopportabile per bambinoni arrivati al successo senza sacrifici? La mancanza di una solida colonna vertebrale?
E non c’è una correità altrettanto grave da parte dei tifosi? Una volubilità da parte del “fan” tale da usare e gettare il mito quando cessa di essere eclatante? Una superficiale indifferenza per l’uomo e considerazione soltanto per il “campione”?
Non è curioso che i nuovi “eroi” siano gente dello sport o del cinema o della musica, ma mai del mondo della cultura? È curioso, ma non poi così strano: i motivi sono ovvi.
Comunque – evitando altri tranelli di pensiero – ho osservato che pochi sanno salire sulla scala del successo mantenendosi puri di cuore; pochi sanno resistere alla lusinga tenendosi saldi nella propria integrità. La fama corrompe, così essere sulla bocca di tutti diventa un’esigenza; e il giro di denaro che sta attorno al campione lo spinge a bisogni assurdi e inventati, mai soddisfatti; non sono rare le volte in cui perdono il contatto con la realtà: ricordo Gigi Lentini, finito fuori strada con la Porsche, per aver voluto ignorare che col “ruotino” di scorta non si va a più di ottanta all’ora e per brevi tratti.
La pubblicità fagocita l’idolo di turno per vendere brioches, telefonini, abbonamenti alle TV a pagamento; lo vuole testimonial (parola bruttissima, perché evoca sedicenti verità che inducono a credere) di creme, vetture, gioco d’azzardo, e quanto si possa vendere impegnando la faccia di un idolo conosciuto, e in qualche misura garante di quanto è pubblicizzato. La società lo usa e lo applaude per gli attimi di gioia che regala a spettatori rassegnati a una vita mediocre;
Cosa non si farebbe per i soldi, eh? Eppure ne hanno più di quanti un uomo medio riesca a farne in una vita di lavoro. Allora? Dov’è l’inghippo?
Sarà dentro di noi? in una società povera di iniziative, dove sempre meno si conquistano le cose con fatica e il mito, il campione, assurge a delegato delle nostre aspirazioni, proprio come il politico è delegato alla gestione della “res publica”, in un collettivo respingimento di responsabilità?
Nell’agglomerato umano in cui oggi viviamo, chi è l’idolo, e cosa rappresenta?
Ritengo indubitabile che la società si renda conto della miseria morale in cui versa: accetta tutto passivamente. Così, persa la fiducia nelle aspettative personali, avvilita da comportamenti amorali ai quali non si oppone, riversa nel campione la realizzazione delle proprie proiezioni. Lo coccola per tenerlo sopra lo squallore quotidiano; gli concede ogni bizzarria.
Se il campione del passato era il simbolo dell’Italia fascista in cerca di riscatto, e in seguito di una Italia post fascista in cerca di credibilità, oggi è il rappresentante di larga fetta di popolazione con poca stima in se stessa e così destrutturata da dipendere sempre più da stimoli esterni.
Sarà stato il crollo di Dio, voce interiore troppo flebile?
Di fatto, l’uomo è sempre meno in bilico fra la mal compresa interpretazione dell’Umanesimo e le anacronistiche costrizioni della Chiesa. Ha vinto il materialismo.
In conseguenza, pare che il bisogno di miti “obblighi” chi ha compiuto l’impresa a essere sempre all’altezza del suo successo, senza andare troppo per il sottile con scrupoli dignitosi.
Il fatto più recente è Pistorius, speranza dei diversamente abili, acclamato per imprese che ci vogliono far credere dettate da spirito ribelle alle convenzioni (e già, le convenzioni; così scomode quando non fanno comodo), forza di volontà, carattere che regge davanti alle avversità, fede incrollabile nel motto: quisque faber est fortunae suae.
Bene! il nostro ultimo eroe caduto dal piedestallo, ha ritenuto di avere tanta credibilità da sparare alla fidanzata a suo dire scambiata per un ladro. Scavando scavando, dai cassetti del comò sbucano eccitanti, poi Dio sa cos’altro; si parla di risse notturne. Intanto gli sponsor prendono le distanze e lo scaricano, e il resto non è difficile da immaginare.
Una volta ho sentito dire che il talento naturale non basta per le imprese che i miti compiono. Si rende necessario un “trainer”, che li costruisca giorno dopo giorno nell’ego convincendoli di essere i “migliori”. E quando non riescono più?
Steroidi? magici elisir? esorcismi di Vanna Marchi? alchimie sofisticate che dovrebbero reggere a ogni prova delle urine?
E già… perché davanti a successi strabilianti, a qualcuno viene il sospetto che non sia tutta farina del loro sacco, così si assiste al solito sketch: onore offeso, ma come vi permettete?, io sono pulito!, ho condotto da sempre una battaglia personale contro la corruzione nello sport.
Insomma, il campione non ci sta! (e noi riusciremo mai a leggere una “frase fatta” diversa? Per esempio: non accetta, respinge l’accusa, è mortificato per l’insinuazione. Gli articolisti non sanno la varietà di termini che le situazioni offrono? Si deve avere sempre e per forza un’unica reazione?)
Poi, di fronte a una provetta di pipì di colore blu, che più blu non si può: pianto disperato, grande dispiacere per aver tradito quelli che credevano in me, scuse a tutti, sono pentito, eccetera. Il solito teatrino… e mai che fosse per una volta diverso! Sarebbe comunque qualcosa, no?
E sì; se il successo è pubblico, pubblica deve essere anche la confessione e il pianto, dimodoché tutto sia un evento mediatico. Due anni di silenzio e poi il grande rientro… intervista in TV, altro atto di contrizione, altri autodafé pubblici,
Come i bambini presi a rubare nel supermercato: davanti alla mamma – che non potendo negare l’evidenza, allora si finge severa – contriti, ma senza lacrime, dichiarano che non lo faranno più.
E il grande pubblico, bisognoso di miti e in perenne crisi di fede interiore, sta a braccia aperte, benevolo nel perdono pur di avere un sussulto di gioia e poter leggere su tuttosport la notizia del rientro alla grande del “campione”, che con fede incrollabile in se stesso, battendosi contro la sventura che l’ha colpito e costretto a lasciare l’agonismo, ora – dando prova di solido carattere – ha realizzata la nuova impresa: battere il record.
Oggi chi sono i veri campioni?
Il pubblico forse? Quello che ogni volta ci crede? Quello che ha perso la fede in Dio, ma non la perde mai nella strombazzata redenzione del suo idolo?
Non lo voglio dire. Dirò invece una sola parola, magica quanto un anabolizzante: Silenzio.
Erberto Accinni

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