C’era una volta: Milano, Corso Como

2 corso como (da internet)

Tanto tempo fa – era il 1950 – esisteva una città che si chiamava Milano.
Io ero nato da poco, in una strada che ancora oggi si chiama Corso Como. Non era pedonale: era attraversata dal tram n. 8 e poche automobili erano parcheggiate lungo il marciapiede. La via inizia da piazza XXV aprile, e allora finiva in uno slargo, dove erano ancora le macerie delle case distrutte dai bombardamenti. Più oltre era un grande ponte di ferro che scavalcava la ferrovia e scendeva a “l’Isola”. A destra erano le “Varesine”.
I miei ricordi di Corso Como 8 cominciano più o meno a tre anni, ovviamente.
Un grande portone di legno con una porticina più piccola dalla quale passavo alla sera con la nonna, quando rientravamo a casa dopo le otto. Era un androne buio che proseguiva nel cortile delimitato dagli edifici interni: un lungo fabbricato “a L” senza balconi, che ancora aveva tutti i segni lasciati dalla guerra; in fondo al cortile – illuminato da un paio di lampadine di forse 40 candele – era la tipografia del padre del mio amico Andrea.
Dopo l’androne, sulla destra era la portineria, un breve passaggio, e le scale che portavano ai tre piani del corpo di fabbricato la cui facciata esterna era sul Corso.
Le scale erano buie, con le pareti scrostate e sporche e i gradini in pietra consumati.
Al primo piano erano gli appartamenti di ringhiera, dove abitava la vedova Pessina che aveva il negozio di ferramenta alla destra del portone; alla sinistra c’era la panetteria.
Era vecchia, piccola e con capelli bianchi e disordinati. Occupava il primo appartamento della fila che si affacciava sulla ringhiera, a sinistra. A destra c’era il gabinetto alla turca, in comune; solo in dialetto lo chiamavano cesso. Qualche volta la vedevo andarci con una piccola seggiola di legno che un tempo era stata impagliata.
La nonna ed io proseguivamo sulle scale. Al secondo piano (il piano nobile, come usava un tempo) c’era una porta di ingresso sulla sinistra, e di fronte una enorme porta a vetri in ferro battuto. La aprivamo, e quello che al piano di sotto era un passaggio aperto, qui al secondo piano era una veranda a vetri, chiusa. Era un lungo corridoio sul quale si affacciavano le porte delle camere. Prima della guerra tutto il secondo piano era della nonna: un appartamento con sei camere, una sala, uno spazio per la cottura sul passaggio per la serra, un bagno padronale e uno di servizio all’inizio della veranda, in corrispondenza del cesso comune del primo piano.
Nell’estate del ’44, era caduta una bomba sugli abbaini, distruggendoli. Lo scoppio aveva distrutto anche la serra a vetri della nonna e danneggiato l’appartamento sottostante. Per non so quanto tempo gli occupanti degli abbaini dormirono all’aperto sulla serra, poi il Comitato Alloggi requisì quattro stanze a mia nonna e li sistemarono lì.
Doveva essere una cosa provvisoria, ma si sa: in Italia nulla è più definitivo delle cose provvisorie. Finita la guerra, la requisizione continuò e furono alloggiate due famiglie di profughi della Dalmazia. La veranda diventò così un corridoio per l’ingresso alle stanze trasformate in appartamenti, e in fondo fu piazzata una parete di legno con una porta e una serratura, per delimitare lo spazio di quel che restava dell’appartamento della nonna: il pezzo finale della veranda, un breve corridoio di passaggio per la serra ormai divenuta una terrazza a cielo aperto, e la porta a vetri sulla sinistra per accedere alla grande sala, alle due camere rimaste e al bagno privato.
Io giocavo sulla terrazza col mio amico Andrea, uno dei figli dei profughi della Dalmazia, che occupava le prime due stanze della veranda adattate ad appartamento, quelle vicine alle scale dove un tempo era la porta d’ingresso della proprietà della nonna. Le due stanze centrali erano abitate da una coppia senza figli.
Il terrazzo, dopo lo squassamento dovuto alla bomba, aveva crepe che facevano filtrare acqua nel locale sottostante quando pioveva. La soluzione più rapida, finita la guerra, era stata di catramarlo e asfaltarlo. Noi giocavamo con un grosso tavolo di legno sul quale mettevamo gli interruttori che la nonna teneva in un cassetto del grande armadio in sala. Era roba del tempo di guerra, quando mancava tutto e si faceva incetta di quello che c’era e che poteva servire. Mettevamo quella roba vecchia sul tavolo e immaginavamo che fosse il quadro di comando del nostro sommergibile, con bottoni, pulsanti e cacciaviti piantati nel legno.
Era estate e giocavamo sul terrazzo. Per il grande caldo, le gambe del tavolo pesante affondavano nell’asfalto e lasciavano cerchi che non andavano più via. La nonna aveva dei vasi di fiori lungo la ringhiera, e anche quelli affondavano nell’asfalto.
A fine giornata mi acchiappava e mi infilava nella vasca ripetendo in bresciano la sua frase che mi faceva sempre ridere: “se te stet mia fermì, te do un pegn sul cò che te et che te ulet” (se non stai fermo, ti do un pugno sulla testa che vai via volando). Lo stesso faceva la nonna di Andrea: non avevano un bagno e lo ficcava dentro una tinozza stagnata, di un colore grigio che non posso dimenticare; lo lavava brontolando in friulano, dandogli scappellotti perché insaponato sguisciava da tutte le parti.

Non c’era il frigorifero allora. C’era una ghiacciaia di legno con un cesto quadrato stagnato per il ghiaccio. D’estate si comprava un etto di burro alla volta, e lo si teneva in fresco nel lavello, sotto un filo d’acqua.
Ero più grandicello quando la nonna mi permise di scendere da solo a comprarmi la colazione.
Scendevo le scale con una bottiglia di vetro e cento lire, mi pare. Uscito dal portone, sulla destra dopo qualche negozio c’era il lattaio che versava mezzo litro di latte nella mia bottiglia, prendeva i soldi (a volte era una banconota da cento lire) e mi dava il resto. Dal panettiere con venti lire potevo scegliere: due panini all’olio a forma di banana o tre michette. Era pane ancora caldo; prendevo tre michette, che avvolgevano in carta marroncina leggera, tenendo le estremità e facendole girare come si fa con la corda per saltare, per chiudere il pacchetto. I sacchetti li usavano per le quantità maggiori di pane. La colazione la facevo in una grande tazza bianca. La nonna scaldava il latte e lo versava sul cacao; io mettevo lo zucchero e il pane a pezzi. Il cucchiaio stava dritto nella tazza, fra i grumi di cacao che galleggiavano attorno al pane. A volte la nonna metteva la marmellata sul pane e lo intingevo nel latte, ma mi divertiva di più mettere il pane a pezzi nella tazza e poi in cucchiaio in piedi.

Nel 1951, a novembre mi pare, papà ebbe finalmente una casa. Era stata costruita per il personale della Banca d’Italia e gli fu assegnato un appartamento al quinto piano. Ci trasferimmo e nemmeno erano arrivati i mobili; avevo poco più di un anno e non ricordo nulla, ma era una casa nuova, enorme, con l’ascensore e una porta per ciascun appartamento. Avevamo dei vicini, anche loro colleghi di papà, e dei nuovi amici. C’era il riscaldamento, e un locale cucina, un bagno, un salone e tre stanze da letto. Dal balcone si vedeva il campo da gioco del Beccaria e più oltre il carcere di San Vittore.
Era una casa magnifica, ma la nonna non lasciò mai il suo ridotto appartamento in Corso Como. Era la sua casa, lì era morto il nonno e lì aveva cresciuto i suoi figli. Lì erano stati i miei genitori dopo sposati e ancora stava zio Peppino, che era fidanzato ma non ancora sposato. Lì era la sua vita, da quando si era trasferita a Milano nel 1930.
Veniva tutti i giorni nella nuova casa, di pomeriggio. Non si fermava mai e molto spesso andavo via con lei, a dormire nel grande letto nella sua grande camera. Pranzavamo in Corso Como e poi prendevamo la Circonvallazione e tornavamo nella nuova casa. Papà dopo pranzo faceva un riposino e poi prendeva il caffè prima di tornare in banca. Noi arrivavamo quando si alzava, e così lo vedevo per qualche minuto. Giocavo nella mia stanza con i miei nuovi amici fino alle cinque, poi tornavamo col tram in Corso Como. Mi piaceva stare con la nonna, era meglio che nella casa nuova.
Di Milano, da piccolo, conoscevo bene tutto il percorso della Circonvallazione. Riconoscevo tutte le fermate e le piazze. Seduti sulle panche di legno parlavamo fino alla nostra fermata, in viale Coni Zugna.
Tutto andò bene fino ai sei anni, poi cominciò la scuola e non potei più stare così tanto tempo con la nonna in Corso Como.
Ma quando avrei avuto l’età giusta, la nonna avrebbe comprato una automobilina per noi: una Bianchina. E allora saremmo andati in giro lei ed io, in città e anche al mare: sempre insieme.

Erberto Accinni                                                                                                                                                    CONTINUA

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