C’era una volta: lo scrittore

hamingwey

Non si lavava molto, beveva come una spugna e aveva atteggiamenti a volte irritanti o altre volte di cattivo gusto; forse aveva crisi di impotenza, era invidioso e generoso, ossessionato dal mito della virilità maschile, del coraggio e della morte; ma è stato lo scrittore che ha dominato il secolo scorso: Ernest Miller Hemingway, nato 21 luglio 1899 a Oak Park, un quartiere di Chicago, Illinois.
Sono stati scritti libri su di lui: da chi l’ha conosciuto, da chi lo ha amato o denigrato o disprezzato, forse rodendosi per non essere come lui.
Il mio primo incontro letterario con Hemingway avvenne a 12 anni e fu uno stralcio del racconto del suo ferimento sul fronte italiano a Fossalta nel 1918, tratto da Addio alle armi. L’avevo letto per conto mio, ma il nostro insegnante di italiano lo fece leggere anche in classe. Sorrise quando si arrivò al punto in cui i portaferiti lo lasciavano cadere per ripararsi dallo scoppio di una granata, mentre lo portavano all’ospedale da campo ferito alla gamba.
Nell’antologia, a uso di ragazzi delle medie, la risposta di Hemingway alle scuse dei barellieri era:
– Se mi lasciate cadere ancora… e lì finiva il dialogo; proseguiva però nel romanzo che lessi tre anni dopo, ed era scritto: – Figli di puttana.
Ora credo che il mio professore abbia riso proprio perché ricordava l’originale che non poteva essere inserito in una antologia delle medie e dato in pasto a degli scavezzacolli di quell’età.
“Figlio di puttana” è una allocuzione che ho trovato altre volte nei suoi scritti, e affermo di averli letti tutti, almeno quelli tradotti in italiano, ma anche uno in inglese: The fifth column. È molto usata in America, poi lo è divenuta anche qui da noi; ma allora non la si udiva mai, e certamente non in una scuola dove il latino la faceva da padrone.
Mi colpì, ma meno di altre cose dei suoi libri: lo stile sobrio ed efficace, la cura nell’uso delle parole, le frasi corte, le osservazioni dei dettagli, che derivavano dalla professione di giornalista.

Nei miei anni giovanili, la Mondadori fece un’operazione commercial-culturale immensa, gli Oscar: una collana di libri a prezzo basso che inaugurò proprio con Addio alle armi, vendendone 350.000 copie in pochissimo tempo. Me lo regalarono, poi io comprai gli altri, che furono nell’ordine: I quarantanove racconti, Per chi suona la campana, Verdi colline d’Africa, Fiesta, Avere e non avere, Morte nel pomeriggio, e infine Festa Mobile.
Non mi sono mai stancato di leggerlo. Ho letto le critiche più diverse sui suoi lavori, ma nessuna ha mai modificato il mio giudizio. È lo scrittore che più ho apprezzato fra i tanti che ho letto.
Mi prendeva; alcune frasi sue sono diventate capisaldi della memoria, come la conclusione de La capitale del mondo o l’inizio di Festa mobile; l’incipit di Le nevi del Chilimangiaro o il finale de Il vecchio e il mare.

Oggi ricorre il 115° anniversario della nascita. Voglio ricordarlo con un suo brevissimo quadretto:

Fucilarono i sei ministri alle sei e mezzo del mattino contro il muro di un ospedale. C’erano pozze d’acqua nel cortile. C’erano foglie morte bagnate sul selciato del cortile. Pioveva a dirotto. Tutte le persiane dell’ospedale erano inchiodate. Uno dei ministri aveva la febbre tifoide. Due soldati lo portarono da basso e poi fuori sotto la pioggia. Cercarono di farlo star dritto contro il muro ma lui cadde a sedere in una pozza d’acqua. Gli altri cinque stavano molto tranquillamente contro il muro. Alla fine l’ufficiale disse ai soldati che era inutile sforzarsi di tenerlo in piedi. Quando spararono la prima raffica era seduto nell’acqua con la testa sulle ginocchia.

Erberto Accinni

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