Il senso di colpa

punto interrogativo

L’altro giorno è successa una cosa molto piccola. Nel ristorante che spesso frequenta, scherzando su una battuta della cameriera con la quale è in rapporti cordiali tali da scambiarsi confidenze e talvolta riflessioni, l’amico X ha dato una risposta maliziosa mal interpretata dalla cameriera che ha replicato un po’ stizzita.
Eravamo di buon umore e avevamo scherzato per tutto il pranzo, ed ecco che di colpo l’ombra è calata sulla nostra allegria. Cercando di non darle peso abbiamo passeggiato un po’ e poi me ne sono tornato a casa ripensando al fatto, che anche se non capitato direttamente a me mi ha comunque messo un poco a disagio.
Non sto a dire della demoralizzazione provata quasi subito dal povero X, che è stata oggetto di accurata disamina verso sera, quando ci siamo sentiti al telefono: eravamo ilari; forse abbiamo esagerato dando adito ad equivoca interpretazione, pur senza intenzione di mancare di rispetto?
Non sto a dire in quali meandri di considerazioni ci si è invischiati facendo la disamina minuziosa del fatto; quel che mi preme osservare è il senso di colpa scatenato da questa stupidaggine.
La considerazione di partenza è che avendo avuto un’educazione rigida che obbliga a un comportamento sempre controllato e rispettoso, il solo aver suscitato equivoci a causa della nostra allegria ci ha mortificati, facendo esagerare l’episodio di per sé molto piccolo.
Avendo sviluppato sin dall’infanzia un rigido autocontrollo, si è formata in noi la coscienza del controllo delle nostre azioni, che una volta guardata bene nel corso di tanti anni, io ho chiamato “il censore intollerante”.
Capita a tutti di fare una gaffe o dire una cosa inappropriata o fare una battuta infelice. Bene! Nel caso dell’amico X (ma anche nel mio) ci sono certi episodi in cui il censore si pone ad arbitro assoluto della tua azione impedendoti qualsiasi giustificazione a posteriori.
Immediatamente l’episodio diviene un disagio mortificante col quale fare i conti per i 3-4 giorni successivi. Conoscenti che hanno ricevuto un’educazione meno impositiva non si fanno queste “seghe mentali”.
Seppur noti e conosciuti (e quindi da tenere nella dovuta considerazione), i meccanismi seguenti l’episodio sono sempre gli stessi: non si riesce a non pensarci, si immaginano mille azioni da compiere per rimediare la gravità del fatto, ci si invischia in un senso di vergogna per se stessi che non trova pace, si giura che per il futuro sarà bene tener sotto controllo l’ilarità; che bisogna sempre valutare la persona che si ha di fronte e sapere sempre che potrebbe reagire male o fraintendere, eccetera.
Tutto questo era molto difficile nella fattispecie, perché il clima divertito di tutto il pranzo aveva ridotto il controllo preciso e puntuale di sé.
Ne è derivato a posteriori che non bisogna mai eccedere nell’ilarità, ergo sarebbe meglio astenersi dal divertirsi, o per lo meno farlo soltanto quando si è certi assolutamente di essere nell’ambiente adatto e fra propri pari, che non giudicano le piccolezze e conoscendoti sanno ridere; una specie di divertimento a comando, senza allentare mai i freni inibitori che l’ilarità a volte fa dimenticare.
Tutto questo perché? Per evitare che il censore, che sta in agguato riposando quietamente in attesa di scatenarsi, nei giorni a seguire l’episodio si prenda – senza aver fatto nulla, e gratis, direi – tanto di quello spazio della tua coscienza da crearti disagio e dubbi e mortificazione tali da guastarti ogni possibile relazione serena negli incontri con altre persone.
Infatti, per evitare di ricadere nell’episodio, ti tieni sotto controllo, sei molto riguardoso, se qualcuno fa una battuta infelice non reagisci e gliela fai passare liscia perché devi espiare la tua grave colpa del giorno prima, memore del fatto che “chi di spada colpisce di spada perisce” e quindi sta bene che ti facciano quello che tu hai appena fatto, perché soltanto nell’espiazione è la liberazione dal senso di colpa.
Essendo note le cause che hanno portato il censore a divenire quello che è (l’educazione rigida, fortemente moralistica, con un eccessiva attenzione ad esser sempre ineccepibile) mi sono però chiesto perché ci siano delle persone che fanno spesso figure di emme e su di loro non hanno alcun effetto, o effetti minimi, mentre io se mi metto a pensare rivedo tutti gli episodi che mi hanno causato imbarazzo postumo, e in alcuni casi mi torna addosso lo stesso disagio di allora.
E forse ho trovato il vero colpevole (che non è come semplicemente si potrebbe pensare il censore da imparare a tenere a freno non so come), ma è il desiderio di piacere, sempre e comunque a tutti. Dare di noi l’immagine migliore ma non la più veritiera, che è quella di esseri umani che sbagliano e imparano dai propri sbagli. Perché se ogni volta si ottiene lo stesso disagio vuol dire che non si è imparato.
Questo pensiero ne ha inevitabilmente introdotto un altro: quale insicurezza ti fa credere che stare in armonia con tutti ti dia salvezza nella vita? Ne è seguita una riflessione facile: non conosci te stesso.
Forse hai scelto di esser buono, non perché lo sei ma per captatio benevolentiae, evitando così di usare una personalità che hai ma non sai dosare: l’aggressività.
Più di altri associamo la parola al concetto di violenza, trascurando che invece è la qualità della quale siamo dotati per muoverci nella vita. Grazie all’aggressività il bambino impara a muovere i primi passi, a piangere per manifestare la fame, a urlare per chiedere aiuto.
Le persone miti, arrendevoli, senza concreta tenacità di riuscire, deboli di volontà, sono quelle alle quali l’educazione costrittiva ha inibito il desiderio, e l’aggressività necessaria per realizzarlo. Dentro sono dei leoni ed esternamente evitano di imporsi anche quando hanno ragioni valide.
Sono i migliori critici nella stigmatizzazione del degrado della società, della sua violenza, della sua superficialità, della sua mancanza di moralità.
Nel west c’era un detto: “il cane abbaia ma la carovana va avanti”. Ecco: sono i cani incapaci di comprendere l’evolversi dei tempi, sempre più avviliti per la loro incapacità, pronti sempre a spaventarsi per i loro piccoli o grandi insuccessi o cadute di stile o episodi banali che assurgono a livello di fallimenti nella vita.
E in forza di quella incapacità, realmente li trasformano in momenti che li bloccano nella continua crescita, producendo pensieri quali: devo sempre sorvegliarmi, non posso questo, non posso quello, la vita è dura, piena di spigoli, difficile da realizzare.

Mi fermo qui. Voglio soltanto aggiungere un piccolo seguito: ho consigliato all’amico X di reagire e tornare nel ristorante facendo finta di niente, affrontando il timore di vedersi trattar male dalla cameriera.
È andato. È stato accolto con un sorriso ed era lei stavolta a far battute maliziose, alle quali lui rispondeva con toni contenuti.
Me lo raccontava oggi: tanto rumore per nulla o tempesta in un bicchier d’acqua?

Erberto Accinni

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