La mia Comedia

X Canto

Ora sen va per un secreto calle,
tra ’l muro de la terra e li martìri,
lo mio maestro, e io dopo le spalle.

“O virtù somma, che per li empi giri
mi volvi”, cominciai, “com’a te piace,
parlami, e sodisfammi a’ miei disiri.

L’Inferno è politicamente legato alle vicende fiorentine, e il X canto ne è un passaggio.
Ritengo che sia ricordato principalmente per lo spessore dei personaggi qui raccontati. Come altre volte accade, dapprima si incontrano anime la cui apparizione fugace serve a introdurre spiriti con i quali Dante si intrattiene.
Siamo nel sesto cerchio, nella città di Dite: lungo il muro di cinta vi sono tombe scoperchiate; alcune vanno a fuoco ed escono raccapriccianti lamenti, ma sono degli anonimi peccatori. Con un verso molto efficace ci vien chiarito che sono coloro “che l’anima col corpo morta fanno.”, i cui corpi, a dispetto del loro credere blasfemo, nella valle di Giosafat si ricongiungeranno con lo spirito per il giudizio: sono gli eretici epicurei che non credono all’immortalità dell’anima.
Dante si aspetta di vedere vedere qualcuno in particolare, e Virgilio lo rassicura, lo vedrà.
Come in un testo teatrale di effetto una voce si leva da una delle sepolture, e il tono lo qualifica immediatamente per un personaggio uso a dar ordini, ad esser ascoltato e obbedito: “O Tosco che per la città del foco/vivo ten vai così parlando onesto”.
Sia per la sorpresa provocata da quell’imperioso vocativo, sia per il timore di veder realizzato il desiderio, Dante ha uno scatto che lo fa indietreggiare, ed ecco che Virgilio lo sospinge verso la tomba dalla quale si erge a mezzo busto Farinata: “però m’accostai,/temendo, un poco più al duca mio”.
Mi ha sempre incuriosito l’avverbio però, usato non in senso avversativo ma al posto di perciò e con significato esplicativo (anche in altri punti l’abbiamo letto).
Farinata è un ghibellino, fiero avversario della fazione di Dante, uno spirito che esige rispetto, e Virgilio lo invita a usare parole appropriate nel rispondere; ma è un avvertimento superfluo giacché Dante, motu proprio, riconosce a quella figura la considerazione che merita.
Inizia qui il dialogo – che Aristotele considera la più alta forma di espressione – basato sulla “tecnica del rinfaccio”. Il poeta dice chi è, e Farinata rammenta che i guelfi furono suoi nemici politici e due volte li respinse da Firenze, e Dante gli contesta che se furono cacciati per ben due volte sempre due volte ritornarono, un arte che quelli del partito di Farinata non hanno mai imparato.
Probabilmente l’interruzione che segue è un trucco dialettico per stemperare la possibilità di una risposta sprezzante, ma di fatto dalla tomba vicina si alza una voce che rompe lo scambio di battute fra i due avversari politici. Uno spirito, che sembra essersi levato sui ginocchi, si affaccia dal sepolcro. È voluto il paragone tra Farinata erto a mezzo busto e l’altro spirito in ginocchio, a raffigurare il diverso spessore dei due, anche se entrambi eretici.
Quasi comicamente, guarda vicino a Dante come se cercasse qualcuno con lui e infine, deluso e lacrimoso, pone una domanda che suona come un elogio che Dante fa a se stesso.
È Cavalcante de’ Cavalcanti, padre di quel Guido che fu amico di Dante introducendolo all’arte poetica, che ora cerca il figlio immaginando che, se il merito di esser lì è per il talento, allora Guido debba esser con lui: “Se per questo cieco/carcere vai per altezza d’ingegno,/mio figlio ov’è? e perché non è teco?
Con questa frase gli si perdona l’intromissione comica. È un padre che chiede conto del suo figliolo, perché la pena alla quale è condannato non gli permette di vedere il presente, e quindi non ha sue notizie. La risposta di Dante è equivoca nello spiegare che non è merito suo poter camminare nell’inferno e aver Virgilio come guida, “cui Guido vostro ebbe a disdegno”.
L’uso del passato remoto crea sgomento nel vecchio: “Come?/dicesti “elli ebbe”? non viv’elli ancora?/non fiere li occhi suoi lo dolce lume?”.
Usa un’iperbole: la luce del sole non gli abbacina più gli occhi?, che ha il valore evocativo di un passato in vita ora contrapposto al buio dell’inferno, forse un rimpianto per aver ciecamente creduto alla non esistenza dell’anima. E poiché Dante esita nella risposta per cercare parole rassicuranti, vinto dal dolore si lascia ricadere nella tomba e più non si fa vedere.
Varie interpretazioni ha avuto il pronome “cui” usato nella risposta: forse è riferito a Virgilio che rappresenta la ragione che Guido Cavalcanti non volle riconoscere, forse è lo stesso Dio che in tutto l’inferno non può esser nominato, forse ancora la teologia che ha trasformato l’amore per Beatrice in “Amor Dei”; anche se è la meno accreditata, io ho sempre pensato alla prima interpretazione, che mi è parsa più colloquiale e in tema con la delicatezza delle terzine
usate per render giustizia all’amore paterno e al suo dolore, smorzando così il lato buffo della sua comparsa in scena. Mi piace pensare a un riconoscimento per l’amico, che lo stesso Dante contribuì a mandar esule a Sarzana, dove pochi mesi dopo gli eventi narrati nel canto morirà.
La pausa – alla quale non si oppone pur essendo Cavalcanti suo suocero e vicino a lui sepolto, ma guelfo – non ferma però Farinata, che riprende a parlare. C’è una dignitosa fierezza nelle sue parole mentre si dichiara spiaciuto perché i suoi non hanno appreso l’arte di ritornare in Firenze; e grave, ma senza spirito polemico o di vendetta, lancia una profezia: entro 4 anni, a Dante stesso capiterà la medesima sorte. E una amara domanda pone: perché nonostante la sua morte i Fiorentini sono ancora così avversi a lui e al suo partito in ogni loro decreto?
Tocca a Dante spiegare che il risentimento è vivo nel ricordo della battaglia di Monteaperti, i cui morti tinsero di sangue le acque del fiume Arbia, e a Farinata obiettare che se ancora la città esiste è perché fu lui l’unico che si oppose, dopo la battaglia, alla distruzione proposta da re Manfredi e gli altri capi ghibellini.
Figura di alto spessore Farinata; di parte avversa a quella di Dante merita comunque tutto il rispetto dovuto a un avversario di valore, e il poeta rifiuta di infierire su quello spirito la cui passione politica sopravvive anche dopo morto.
Gli chiede invece di quella stranezza che impedisce ai dannati di vedere il presente, e gli vien spiegato che i dannati possono vedere soltanto il futuro; la preveggenza è frutto della legge del contrappasso: avendo vissuto soltanto per il presente senza curarsi mai delle conseguenze delle loro azioni, sono condannati a conoscere il futuro ma sono ignari di quello che accade nel tempo vicino.
In virtù del rispetto che prova per un sì fiero avversario, Dante lo prega di una commissione: spiegare a Cavalcanti l’equivoco verbale sul suo figliolo.
Scostatosi, rimane la curiosità di sapere chi altri è nelle tombe, e Farinata gli risponde: più in là è Federico II di Svevia, noto fra i guelfi come l’Anticristo, e il cardinale Ottaviano degli Ubaldini uomo di chiesa ma più incline alle attività mondane, e anche lui poco certo di aver l’anima. Ritroveremo un suo nipote nel XXXIII canto e in una scomoda posizione: Ruggiero; una sorta di biblico monito che le colpe dei padri ricadono sui figli.
La profezia ha toccato e scosso Dante, e Virgilio lo invita a non avvilirsi: più avanti, quando incontrerà Beatrice, potrà sapere tutto il suo futuro. Si volgono quindi a sinistra e inforcano un sentiero dove un odore sgradevole subito li aggredisce:
lasciammo il muro e gimmo inver’ lo mezzo/per un sentier ch’a una valle fiede,/che ’nfin là sù facea spiacer suo lezzo.

Sebbene abbia usato il fiorentino, non va scordato che Dante è stato uno sperimentatore linguistico utilizzando parole dei vari dialetti che si parlavano nell’Italia così frammentata del ‘300. Nel verbo “gimmo”, che è coniugato e usato anche in altre parti della Comedia, mi è sempre parso di vedere la parola napoletana “gire”: andare. Una cantilena napoletana dice infatti: ‘na storta vene, ‘na dritta va, sempre storta nun po’ gì.
La grande libertà espressiva non fece della sua opera un modello al quale ispirarsi per la creazione di una lingua italiana; ritengo che la scelta sia stata motivata dal desiderio di creare un’opera universale: non scordiamo che ancora oggi l’80% delle parole da lui usate è nel lessico moderno.
Il Cardinal Bembo gli preferì Petrarca come modello di riferimento, decretandone così il poco successo che ebbe nei secoli. La Comedia ha avuto la sua rivalutazione nel periodo illuminista e a opera di G.B. Vico, quando ci si staccò dalla necessità di un modello espressivo.

Erberto Accinni

continua…

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