La mia Comedia

XXVI Canto

Godi, Fiorenza, poi che se’ sì grande
che per mare e per terra batti l’ali,
e per lo ‘nferno tuo nome si spande!

Tra li ladron trovai cinque cotali
tuoi cittadini onde mi ven vergogna,
e tu in grande orranza non ne sali.

Lo considero il canto più bello: l’azione, l’avventura, il coraggio qui sono narrati con un ritmo incalzante cui i tanti enjambements delle terzine infondono continuità narrativa. Si è sospinti a leggere andando sempre più avanti fino al finale potente, epico, ineluttabile: è il canto di Ulisse.
Molti sono i versi che son stati estratti e citati; per la sua bellezza stilistica è il canto che era fatto imparare a memoria dalla metà circa fino alla fine, e a chi lo ha studiato credo sia rimasto per sempre nel cuore. A costoro propongo di ripassarlo, come io faccio ogni tanto con molto piacere.
Stiamo per essere ammessi nell’ottava bolgia, quella dei fraudolenti, ma si proviene dal girone dove stanno i ladroni e Dante usa parole sprezzanti contro la sua città: sii fiera di te – dice – poiché sei famosa sulla terra e anche qui all’inferno. Cinque fiorentini ho incontrato nel girone precedente e da costoro non ricevi affatto onore.
Si lancia in una profezia: in un sogno da lui fatto all’alba, che nel medioevo si riteneva fossero sogni profetici, ha visto la fine di Firenze per mano della vicina Prato; e si spinge a desiderare che presto avvenga, giacché più Prato esita, più lui invecchia. È un augurio che gli da dolore, ma del quale vede la necessità come lezione per i misfatti dei suoi cittadini.
È però tempo di riprendere l’aspro viaggio in salita “tra le schegge e tra ’ rocchi de lo scoglio/lo piè sanza la man non si spedia”. È una delle citazioni che il canto propone, e a essa seguono terzine facili da ricordare per la loro capacità immaginifica: gli si para davanti una vista che lo obbliga ora a non farsi prender la mano nel riferire: che l’ingegno non si lasci sopraffare dalla superbia scordando la virtù; un richiamo a se stesso ma anche una anticipazione di quello che accadrà a Ulisse.
Per prender fiato prima del racconto ci introduce una similitudine: al pari delle tante lucciole che il contadino vede la sera splendere nel campo che ha arato di giorno, lui pure vede mille luci che vagano sul lago di questa bolgia. Usa un’altra similitudine per dire ciò che ha intuito, cioè che in ogni fiamma è racchiuso un peccatore: si avvale dell’immagine del profeta Eliseo, che abbacinato guardava salire in cielo Elia su un carro trainato da cavalli senza poter altro vedere; e come lui resta affascinato dallo spettacolo che ha innanzi. È in bilico sul ciglio e in precario equilibrio, “sì che s’io non avessi un ronchion preso,/caduto sarei giù sanz’esser urto”.
Virgilio si affretta a spiegare, vedendolo così preso da quella visione, ma Dante lo rassicura: ha capito ed è ora incuriosito da una fiamma biforcuta le cui lingue paiono non congiungersi mai, “che par surger de la pira/dov’Eteòcle col fratel fu miso”, altra similitudine con riferimento al rancore esistente fra i due fratelli tale da far dividere persino la fiamma che li bruciava.
Ecco come siamo introdotti nella storia: nella fiamma scontano la punizione Ulisse e Diomede uniti nella punizione divina così come insieme congegnarono l’inganno del cavallo di Troia, il piano astuto per costringere Achille a partecipare alla guerra e infine il furto della statua sacra di Troia (il Palladio).
Dante vuole sapere, chiede a Virgilio di far avvicinare la fiamma, ma è Virgilio a consigliare prudenza “ch’ei sarebbero schivi,/perch’e’ fuor greci, forse del tuo detto”. I Greci non parlavano con i latini ma soltanto con quelli che avevano scritto di loro, una accortezza dialettica che egli conosce bene avendo scritto l’Eneide, e che ora usa per attirare l’attenzione della fiamma. Quindi, “dove parve al mio duca tempo e loco,/in questa forma lui parlare audivi”; inizia qui il canto che si impara a memoria, con la richiesta di Virgilio che si fa forza della sua conoscenza del mondo greco “quando nel mondo li alti versi scrissi”. Anche qui ritroviamo l’uso del verbo gire: “l’un di voi dica/dove, per lui, perduto a morir gissi”, e uno dei numerosi enjambements del canto: dica, e a capo dove.

“Lo maggior corno della fiamma antica…”
La richiesta di raccontare è accettata. Simile a una lingua che si muove per iniziare a parlare, la fiamma si agita e infine una voce esce. Come non ricordare il particolare tono usato da Gassman per scandire la parola e successivo enjambement: “Quando”/mi diparti’ da Circe …
Inizia così, senza fronzoli né preamboli il racconto che ci spiega l’irrequietudine, il desiderio per l’avventura, la voglia di conoscere di Ulisse. Armata una nave, con quella sua compagnia di marinai che mai lo ha abbandonato, inizia l’esplorazione del Mediterraneo: “L’un lito e l’altro vidi infin la Spagna,/fin nel Morrocco, e l’isola d’i Sardi,/e l’altre che quel mare intorno bagna.
Non so voi, ma a me – complice la filmografia che ha narrato le sue gesta – sembra sempre di vedere quella imbarcazione greca con la prua alta e la vela trapezoidale che muove nel mare esplorando e scoprendo nuove terre e nuove avventure.
E sul ponte di quella piccola imbarcazione mi pare di vedere Ulisse che dopo dieci anni di esplorazioni giunge “a quella foce stretta/dov’Ercule segnò li suoi riguardi/acciò che l’uom più oltre non si metta. Lo vedo tenere la suapiccola orazione, la sua captatio benevolentiae che inizia con il vocativo “O frati”, ai compagni vecchi come lui, spronandoli all’ultima conoscenza con le parole che sono ormai fra le citazioni più note:
“Considerate la vostra semenza:
fatti non foste a viver come bruti,
ma per seguir virtute e canoscenza”.
Da questo momento il racconto che è sempre stato in prima persona coinvolge i compagni, come per fare appello anche al loro coraggio per quest’ultima impresa. Ulisse non si riferisce più a se stesso soltanto, ma tutto quello che capiterà sarà “a noi”.
E riscuote tanto consenso che i compagni non esitano a seguire l’invito a varcare le Colonne d’Ercole, a superare i limiti del mondo conosciuto; “e volta nostra poppa nel mattino,/de’ remi facemmo ali al folle volo”. Anche questa è una citazione nota, il verso che Mussolini preferiva e che usò per celebrare il raid aereo di 55.000 miglia compiuto dal comandante De Pinedo nel 1925.
“Tutte le stelle già de l’altro polo/vedea la notte, e ’l nostro tanto basso,/che non surgëa fuor del marin suolo”. E’ l’ultima avventura: cinque mesi navigando verso sud, fino a quando giungono in vista di una montagna “bruna/per la distanza, e parvemi alta tanto/quanto veduta non avëa alcuna.”
È giunto al Paradiso, il fine ultimo della conoscenza e anche la conoscenza ultima per l’uomo medievale; ma il giudizio divino al quale tutto soggiace – secondo Dante – non lo considera degno per questa ultima scoperta: Ulisse non è cristiano, non può godere della salvezza che la fede in Dio assicura: è un fraudolento e ha osato sfidare l’avvertimento alla prudenza inciso sulle Colonne.
La gioia per aver creduto di esser alla fine del viaggio presto si trasforma in terrore: “Noi ci allegrammo, e tosto tornò in pianto;/ché de la nova terra un turbo nacque/e percosse del legno il primo canto.”
La sfida finisce qui, col giudizio superiore che nega l’ultima rivelazione: “e la prora ire in giù, com’altrui piacque,/infin che ’l mar fu sovra noi richiuso”: altra perifrasi per non nominare Dio all’inferno. Non vi è ribellione nelle ultime parole di Ulisse ma soltanto rassegnazione e accettazione di un volere a lui superiore. Nel più puro codice dell’eroe accetta la punizione per aver osato tanto. Accetta il fallimento conscio di aver provato, e la simpatia di Dante traspare da queste ultime righe.
Questa è la fine di Ulisse, e nell’immaginarla come la racconta ci rende il personaggio più epico e degno di ammirazione, come lo sono nella storia tutti coloro che con le azioni e il pensiero, pagando di persona, si sono opposti ai dogmi della chiesa, pesanti nel medioevo ma ancor più impositivi con la Controriforma.
Va riportata un’ultima considerazione: la fine di Ulisse come Dante l’ha immaginata è diversa dalla versione di Omero. Secondo il cantore greco, l’indovino Tiresia profetizza che l’ultima impresa sarà per terra, lontano dal mare e nelle lande oltre le Colonne d’Ercole. Incamminandosi con un remo in spalla in territori dove non si conosce il sale, quando incontrerà un popolo che scambierà il remo per un ventilabro (lo strumento che i contadini usano per battere il grano e separare la pula) dovrà fermarsi e offrire sacrifici a Poseidone, pacificandosi col dio che ha così tanto sfidato. Potrà così tornare a Itaca e qui, ormai vecchio, morire.
La versione dantesca sulla sua fine è tratta e riadattata dalla versione latina di Ovidio, poiché Dante non conosceva quella di Omero.
Occorre ricordare che al suo tempo era ancora vigente lo scisma con la chiesa ortodossa, e ogni canale di sapere con il mondo ellenico era interrotto. Negli studi classici di Dante e dei letterati dell’epoca non era compreso il greco. Bisognerà attendere il Concilio di Firenze del 1439 perché si crei un avvicinamento fra le due chiese separate, anche se gli intenti delle due delegazioni erano diversi: per il Patriarca Giuseppe II doveva essere una riconciliazione che riconduceva gli ortodossi in seno alla chiesa cattolica, per l’imperatore bizantino Giovanni VIII Paleologo era invece la premessa – cedendo sui temi squisitamente teologici e religiosi – per ottenere aiuti in previsione dell’assalto dei Turchi all’impero Bizantino, che infatti avvenne e portò alla caduta di Costantinopoli nel 1453.
Quella sede comunque fu l’occasione di scambi culturali che ebbero come fine l’introduzione del greco negli studi classici.

Erberto Accinni

continua…

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