La mia Comedia

Nel mezzo del cammin di nostra vita
mi ritrovai per una selva oscura,
ché la diritta via era smarrita.

Da un po’ di tempo ho riscoperto un interesse che forse avevo anche ai tempi della scuola, ma che allora – distratto da altro – non ho curato più di tanto: la Divina Comedia.
È una rappresentazione poetica che molto si avvale di tecniche ed effetti teatrali in cui l’inizio – in sintonia con le regole retoriche del mondo antico – è infelice e il finale lieto (commedia), diversamente dalla tragedia, dove inizio è infelice e la fine è drammatica.
Nella sua epistola a Cangrande della Scala ammette di aver voluto usare una lingua con la quale parlano anche le donnette; un’opera difficile ma scritta con un linguaggio umile e semplice anche nei passaggi più alti, filosoficamente e spiritualmente.
Il fine è sottrarre gli uomini dall’infelicità e portarli verso la felicità in questa vita, con chiaro riferimento alle sue concezioni sulla funzione dell’Impero in contrasto con la corruzione della chiesa; la definizione separata dei rispettivi ruoli.
Dante era un convinto religioso e come tale la sua opera riflette l’influenza della sua fede. Era una visione comune a tutta l’umanità del Medioevo, e bisognerà aspettare la peste del 1348 perché i rapporti con la religione inizino a modificarsi con i preumanisti quali Petrarca e Boccaccio, ma al tempo di Dante tutto questo era di là da venire; nel suo mondo due erano gli argomenti che impegnavano l’intera umanità: il potere spirituale e quello temporale, il Papato e l’Impero. Era impossibile allora non esser religiosi e non sottostare al volere della chiesa; non ci scordiamo che lo stesso imperatore doveva andare a Roma per farsi incoronare dal papa, e che la sua opposizione al volere del sommo pontefice doveva fare i conti col suo diritto di scomunicare chiunque, persino gli imperatori.
In quel clima politico (l’opposizione fra Guelfi e Ghibellini), in Dante era maturata la visione politica dei due soli, impero e papato, del quale peraltro era stato un critico piuttosto severo: reggendo Bonifacio VIII il trono di Cristo, Dante era stato feroce nel collocare Celestino V nell’inferno giacché “fece per viltade il gran rifiuto”. La verità storica sarà più clemente in epoche successive, ma per secoli la tradizione ha voluto che Celestino, seguendo la versione dantesca, fosse tacciato di codardia.
La religiosità ha pervaso tutto il medioevo. Gli Illuministi – per indicare il loro tempo in netta contrapposizione a quello – ci hanno tramandato di un periodo buio, forzando non poco la verità storica; un periodo di “oscurantismo medievale” dominato dallo strapotere della chiesa.
Sarà Beccaria ad affermare che il delitto non è un peccato verso Dio ma verso la società; Dante però è vissuto in quell’epoca e in quell’epoca la religiosità occupava il tempo dell’umanità scandendone i giorni, le ore, le regole di vita. Se vi piace, deve essere apprezzato per un uomo del suo tempo nel quale la lotta politica vedeva contrapposti due forti centri di potere spesso non disposti a concedere nulla all’altro, come mostrano le opportunistiche e contradditorie alleanze che si formavano fra il papato e altre forze politiche (Comuni e poi Signorie) per contrastare i diritti imperiali.

Seppur aderente alla corrente del “dolce Stilnovo”, l’occupazione principale di Dante non era quella di fare il poeta; era infatti un uomo politico che per le alterne vicende del controllo di Firenze fu, come sappiamo, esiliato e costretto a viver esule fino alla morte. In Romagna, in esilio presso Cangrande della Scala, concepì l’idea di un’opera che rappresentasse con stile letterario ma diretto a tutti (da cui il titolo di Comedia) tematiche a lui care scrivendo di tutti gli aspetti della vita, anche i più bassi. L’aggettivo “Divina” fu introdotto da Boccaccio una settantina di anni dopo per rafforzare i temi trattati nell’opera, e così è conosciuta sin da quando – in piena Controriforma – l’opera fu stampata a Venezia.
Quel profilo col naso adunco e l’alloro in testa non aveva nulla di accattivante; veniva più di scherzarci sopra che di studiarlo, ma era nel programma scolastico e non si poteva evitare.
Cominciammo il terzo anno delle superiori, partendo come di rito dall’Inferno, che per me è la parte più apprezzabile per il vasto campionario di persone, peccati e luoghi di pena.
Mi piacque l’incipit: …mi ritrovai per una selva oscura/ché la diritta via era smarrita.
Credo che la prima terzina sia così famosa da esser conosciuta da molti (anche se non tutti); l’incontro con le tre fiere immetteva subito nella condizione umana di corruzione alla quale l’individuo soggiace nella sua vita di relazione (anche se allora non avrei saputo riportare questo concetto).
Molte delle sue rime – estratte dal loro contesto e citate a volte senza sapere la provenienza – erano nel linguaggio comune: “al tempo de li dei falsi e bugiardi”, “tremar le vene e i polsi”, “qui si parrà la tua nobilitate”, “tra color che sono sospesi”, per citarne alcune.
La sua visione di colpa/peccato/delitto era medievale: una ribellione a Dio, Era quindi ovvio che oltre alla giustizia umana ci fosse poi – per ogni malvagità commessa – la punizione divina post-mortem all’inferno.
In qualche misura, posso anche dire che la mia maturazione religiosa sia stata influenzata dalla lettura della Comedia, giacché il concetto di colpa e punizione era – per me che crescevo – subordinato alla visione dantesca di “offesa a Dio”. Avendo frequentato le scuole dell’obbligo presso i preti la cosa non pare tanto strana giacché i loro insegnamenti, all’epoca, soffrivano non poco di oscurantismo medievale.
Curiosamente – ed è cosa della quale mi dispiaccio – soltanto dopo anni mi sono soffermato sul pensiero che un Dio giusto mai condannerebbe i suoi figli alle atroci pene dell’inferno. Soltanto gli uomini sono capaci di farlo, e Dio glielo lascia fare. Del resto vigeva un’equazione, forse non seguita da molti: buon cristiano=buon cittadino e a questa si ispiravano i principi educativi. Le tentazioni erano molte, e io avevo uno sviluppato “senso di colpa”, che è già una feroce punizione. Era difficile resistere, e resistevo poco, ma poi me la dovevo vedere con la cattiva coscienza, che addito nell’aggettivo cattiva perché non si fa mai i fatti suoi, nemmeno per le sciocchezze.
Ma “per trattar del ben ch’i’ vi trovai”, un po’ per amore ma più per forza dovetti leggerla, e anche se alcuni passi erano veramente “tosti” mi prendevano, e mi sforzavo con le conoscenze di allora e con le note a piè di pagina di capire e seguire; e col tempo mi piacque; non nego che qualche volta la citazione di qualche passaggio mi ha fatto fare belle figure.
Non sono un critico, e come tutti coloro che amano le cose ben fatte apprezzo quei punti che non annoiano. La rilettura in tempi più recenti è stato un piacere, non essendo costretto come lo ero da studente.
Capita spesso che si amino più alcune cose di altre, e dell’opera io ho conservato nel tempo più la memoria di alcuni canti che non di tutta l’opera.
Ora che tanto tempo è passato da quel primo contatto scolastico, quattro in particolare sono i canti che ancora mantengono la voglia di leggere, e non poche volte di recitare a memoria, con qualche sforzo, forse perché sono sicuramente comuni all’umanità tutta: il V: l’amore, il X: la politica, il XXVI: l’avventura e il XXXIII: l’odio.

E di questi voglio parlare, a modo mio.

V canto

Così discesi del cerchio primaio
giù nel secondo, che men loco cinghia
e tanto più dolor, che punge a guaio.

Stavvi Minòs orribilmente, e ringhia:
essamina le colpe ne l’intrata;
giudica e manda secondo ch’avvinghia.

In una bufera infernale che smuove per l’aria gli spiriti, Dante incontra due personaggi entrati nel mito: Paolo Malatesta e Francesca da Polenta. Credo sia molto conosciuto, forse quello che “il cuor gentile delle donzelle” ricorda più di altri.
Si entra nel luogo dove è giudicata la vita degli uomini e i loro peccati.
Minosse, il giudice infernale, ascolta le colpe commesse: “e quel conoscitor de le peccata/vede qual loco d’inferno è da essa;/cignesi con la coda tante volte/quantunque gradi vuol che giù sia messa.” cioè quale sia il girone più appropriato per scontare la pena.
Già dalla prima frase – nella discesa “del cerchio primaio/giù nel secondo, che men loco cinghia”
si capisce che l’inferno qui si apre davvero. Le mille anime stanno in fila e attendono il loro giudizio dopo una confessione pubblica che accresce di vergogna la loro pena.
Già Dante era stato avvertito di lasciare quei luoghi da Caronte nel III canto, e ora riceve pari avvertimento da Minosse in persona. E ancora una volta Virgilio gli dice di non intromettersi giacché “vuolsi così colà dove si puote/ciò che si vuole, e più non dimandare.”
Mai una volta nel corso del viaggio per l’inferno troveremo pronunciato il nome di Dio, essendo proibito invocarlo in quei luoghi di pena.
Proseguendo, il canto ci offre una chicca che a quelli che hanno la mia età era piuttosto nota: “Or incomincian le dolenti note”. Quante volte l’abbiamo udita, riferita in specie al rendimento scolastico? Non so voi ma io spesso, e senza sapere che fosse dantesca fino alla sua “scoperta” nel V canto; e il suo ritrovamento aumentò il piacere della lettura dei passi successivi.
In un luogo buio percosso da rumore come di mare in tempesta, “La bufera infernal, che mai non resta,/mena li spirti con la sua rapina;/voltando e percotendo li molesta.”
Il vento infernale li sospinge, ecco è la pena per i peccator carnali; senza mai fermarsi “di qua, di là, di giù, di sù li mena”. Virgilio li indica, e subito ci introduce nel pieno della loro colpa.
La prima è Semiramide che “licito fè libido in sua legge/per torre il biasmo in che era condotta”. Una immagine forte: una donna talmente corrotta e amorale da fare della lussuria una legge di stato per non esser criticata!
Poi altre: Didone che si uccise per amor di Enea, Cleopatra lussuriosa, Elena di Troia; tutte donne infedeli al talamo, situazione tanto criticata dalla chiesa ma così cara ai maschi. E poi altri: Achille, Paride (che non è con Elena), Tristano.
Io ho visto la necessità di declinare questa parata di anime “perse” per introdurre due spiriti che contrariamente agli altri vanno appaiati e apparentemente leggeri nella lunga fila scossa dal vento come se, anche all’inferno, a loro sia stata riservata una differente considerazione. La curiosità è quasi un dovere, ed ecco che attratta la loro attenzione Dante si fa raccontare la loro storia.
Da subito comprendiamo che sono diversi. La delicatezza con la quale è descritta la loro calata presso il poeta subito introduce in un clima di Dolce Stilnovo che si rinnova alcuni versi più avanti: “Quali colombe dal disio chiamate”. Le parole gentili con le quali l’un spirito si volge a Dante subito li qualifica come persone di altro livello. La prima osservazione è su chi parla: Francesca e non Paolo, che invece tace per tutto il racconto e piange. Augura ogni bene al poeta, “poi c’ hai pietà del nostro mal perverso” e ci introduce in un preambolo che inizia con una infinita dolcezza evocativa:
Siede la terra dove nata fui/su la marina dove ’l Po discende/per aver pace co’ seguaci sui.
C’è una nostalgia in queste parole che è oltre il dispiacere di aver lasciato la propria terra per andar sposa a Gianciotto Malatesta; il rimpianto di una vita che ancora non conosce il peccato ma la sola promessa di “Amor, ch’al cor gentil ratto s’apprende” che si avvererà con la persona sbagliata: non con il marito ma con il cognato, la cui persona le è tolta in modo così infamante e cruento che la offende anche da morta.
Tre terzine (100, 103, 106) iniziano con la parola amore spiegando, con una delicatezza inconsueta per l’inferno, come la cosa non sia dipesa da loro ma da una volontà superiore che non ha consentito altra possibilità: la inesorabile legge dell’Amore.
Nella voce c’è un solo risentimento: verso il marito che li ha così crudelmente uccisi scoperto il tradimento; e poi rimpianto per la interruzione di una storia che mai ci pare una sordida infedeltà coniugale.
Dante sollecita il racconto e Francesca parla, e la sua voce non perde mai delicatezza: “E quella a me: “Nessun maggior dolore/che ricordarsi del tempo felice/ne la miseria;”
Così ci immette nella sua storia: intenti a leggere il romanzo del ciclo di Re Artù che narra le gesta dei cavalieri, sono presi dalla lettura ma “sanza alcun sospetto” di quello che sarà.
Commuove l’innocenza che per più fiate li sospinge nella lettura del libro galeotto; narrata così semplicemente da essere veramente credibile, non una scusa per giustificare il tradimento che li attende al fatale passaggio: “Quando leggemmo il disïato riso/esser basciato da cotanto amante,/questi, che mai da me non fia diviso,/la bocca mi basciò tutto tremante.
Ma c’è di più: nella rima “questi, che mai da me non fia diviso”, c’è la promessa di un amore che non sfiorirà col tempo né si guasterà con le disavventure della vita; un amore tanto eterno da durare fino ai giorni nostri e oltre ancora, finché ci sarà memoria dell’opera dantesca. Merita davvero una lettura come la faceva Gassman ponendo molto l’accento sulla frase e scandendo ogni parola.
Ho sempre pensato che Dante li abbia consegnati all’immortalità; che con empatia sincera si sia compenetrato nella storia con l’intento di celebrare il Dolce stilnovo che riecheggia nelle tre terzine citate prima: “Amor, ch’al cor gentil ratto s’apprende”, “Amor, ch’a nullo amato amar perdona”, “Amor condusse noi a una morte”.
Come già detto, è Francesca che racconta mentre Paolo piange e non dice mai parola. È lei che incarna il concetto di amore che già aveva impegnato Dante in sublimi descrizioni della donna da lui amata nel più puro amor cortese. A Francesca spetta parlare di amore, e lo fa con un tatto che nulla sciupa. Dante ci rende così – in parole fatte dire a una donna – il suo concetto, e ne rimane così preso e commosso da venir meno e cadere svenuto.
Incontrare amore nell’inferno, fra personaggi peccatori e meritevoli di pena, porta a pensare che i due spiriti siano fuori luogo. Non ci sono accenni a desideri fisici. Una sola è la richiesta: questi “spirito” non sia mai separato da me, quasi a suggerirci che il vero amore possa esserci soltanto quando si è essenza, anima, incorporei; suggerimento reso più evidente nel passaggio dall’amor carnale vissuto dai primi spiriti incontrati a quello dei due innamorati, interrotto sul nascere, forse, prima che il tempo lo ingiuri trasformandolo in peccato.

Erberto Accinni

continua…

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