Il ricordo

interrogativo

Tanto tempo fa, when I was young, ero un distratto di dimensioni monumentali: avevo – e ho sempre avuto – buona memoria, ma la distrazione è ancora oggi una mia caratteristica distintiva; ero redarguito spesso per questo, e me ne facevo anche una colpa. Nelle traduzioni di latino, se declinavo il sostantivo dimenticavo l’aggettivo, se il soggetto era al singolare mettevo la voce verbale al plurale; non sbagliavo però la declinazione di “vis” né la coniugazione del verbo “fero”, e ricordo ancora adesso la cadenza del distico elegiaco.
Fu un piacere – quando iniziai lo studio dell’inglese – scoprire che l’aggettivo non era né maschile né femminile né plurale, e che i verbi avevano poche varianti di declinazione, anche se spesso le sbagliavo.
Sognavo, e questa era un’altra mia caratteristica, buona per la fantasia ma pessima per la concentrazione. Stranamente non è mai stato così per la matematica: non mi ha mai causato fastidi; trigonometria la capii in quattro ore, anche se adesso non me la ricordo più.
Non mi piaceva la scuola, ma adesso so perché: a causa della distrazione e della difficoltà di concentrazione ero spesso criticato, e non volevo fare brutte figure.
All’epoca vennero di moda i test psicoattitudinali dell’IBM. Li fecero anche nella scuola che frequentavo, e ne uscì che ero un braccio strappato all’agricoltura. La preside delle medie, una altoatesina tutta di un pezzo, sprezzante e severissima, si espresse scuotendo la testa con mio padre e suggerì (veramente fu un consiglio più simile a un diktat, che mi impedì di esprimere il mio volere) di iscrivermi a scuole di indirizzo professionale, con la speranza di cavarmela almeno in una di quelle. Così finii in una scuola per ragionieri.
Ora io dico: ragioniere è un titolo che è etimologicamente legato al verbo ragionare. Non sono mai riuscito a capire il nesso, giacché – per cinque anni – ho soltanto fatto grandi sforzi per ricordare.
Forse il ragioniere è davvero uno che ragiona, ma non è stato il mio caso. Forse avrei dovuto frequentare scuole dove si impara il ragionamento: parlo dei licei, dove si studia filosofia, ma temo che non sarebbe stato diverso: ero comunque distratto.
Sembra un cane che si morde la coda, no? Forse avrei dovuto sospendere gli studi e andare a lavorare, imparando così a coordinare il mio tempo in attesa che emergessero altre qualità, perché non c’è niente come sudare su una lima per fare emergere la nostalgia dello studio.

Quello che sono oggi è frutto della curiosità e della voglia di sapere, del piacere che è nella conoscenza, nella bellezza che sta nel ricordare poesie e brani imparati a memoria. Nella dolcezza che trovo nel ricostruire possibili percorsi di armonia del pensiero, che a volte si schiudono e diventano chiari dopo non averli compresi per anni.
Ma se mi volto indietro, rivedo tante cose di allora che ancora oggi non mi sono perdonato: la severità degli altri, ma anche l’incapacità mia di stare concentrato sul rimprovero e metterlo a frutto. Scopro inoltre sempre più evidente un difetto che allora era soltanto in nuce, quello che ora definisco con un termine che non esiste “dislessia grafica”: vedo la parola da comporre con i tasti della tastiera, ma la scrivo rovesciata o con le lettere spostate; poi per tornare indietro e correggere dimentico il concetto, e peggioro ogni giorno.
Leggo qua e là, in internet: ed è possibile che non sia esattamente così, ma scopro i miei limiti nelle caratteristiche dei dislessici:

“Con frequenza lo studente dislessico, ma non diagnosticato, viene considerato pigro, distratto, ed a queste caratteristiche si attribuiscono i suoi scarsi risultati scolastici, per cui viene spesso esortato a lavorare di più, ad essere attento e, in qualche misura, viene sottovalutata la sua capacità di apprendere.
Il risultato di questo atteggiamento è che lo studente perde la fiducia in se stesso.”

Eh sì. Adesso ci sono programmi per aiutare, ma allora non era così. Ti etichettavano, e l’etichetta rimane tutta la vita, anche perché a forza di sentirtelo ripetere ci credi, e diventa una tua caratteristica/limite. È quella che uno psicologo definisce “impotenza acquisita”.
Riguardando il passato alla luce di quanto imparato nel corso degli anni, quel preciso giorno di difficoltà o di imbarazzo o di confusione diventa rimpianto, perché ora saprei cavarmela.
Per risparmiare una brutta figura al ragazzo di allora, vorrei essere capace di riscrivere la storia modificando l’episodio giacché, per quella non diagnosticata disfunzione, le figuracce sono state molte.
Però il tempo scorre soltanto in avanti, e a causa di questo unidirezionale moto – complice anche la buona memoria che non risparmia nessun dettaglio – di quell’episodio resta soltanto uno scatto di disappunto per non essere stato all’altezza quella volta, in quella occasione; in quel momento in cui la tua autostima ha subito un fiero colpo, spesso anche ingigantendo il fatto.

Che fare? Incolpare i genitori che non hanno saputo proteggermi da bambino, quando avevo più bisogno? Chiamare incompetenti i professori che mi hanno messo impietosamente alla berlina intignando davanti alle mie difficoltà?
Prendersela con l’incapacità di reagire quando era il momento per farlo, perché sopraffatto dalla vergogna?
Tutto sicuramente vero, ma ora ho un’età.
Scoprire un possibile disturbo non diagnosticato quando ne avevo più bisogno non mi ridà giustizia, ma mi aiuta a comprendere il bambino che sono stato, il ragazzino, l’adolescente, l’adulto; anche se non cambia la storia può aiutare a riconsiderare l’opinione ferocemente e assurdamente critica che ho di me, e che mi porto appresso da allora.
Siccome con me stesso convivo da più tempo che con altri, saperlo ora rende possibile vedere il passato con giudizio più mitigato, riducendone gli effetti sul futuro. Non si deve credere a chi afferma che tornare indietro è soltanto nostalgia. Nel passato, individuale e collettivo, stanno le verità che possono correggere il presente.
Posso riprendermi l’Erberto del tempo e giudicarlo meno severamente. Forse la spietatezza dei giudizi tagliati su di me mi ha reso spietato nel giudicare altri. Le difficoltà che hanno reso aspro il carattere, in questa nuova ottica possono migliorare il tempo a venire: se non proprio scusandomi di persona con quanti sono stato intransigente, certamente proponendomi di essere diversamente tollerante per il futuro.
Quanti hanno subito e subiscono quotidianamente episodi di ingiustizia che li mortificano?
Tutti, credo.
Incolpiamo allora il mondo? Dai… è incoraggiare sempre il proprio vittimismo.
Mi piacerebbe davvero sapere – almeno nelle intenzioni e propositi – come voi considerate questo alternativo modo di vedere le cose.

Erberto Accinni

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