C’era una volta: Milano, Numa Pompilio

Credo che da Corso Como sia iniziata la mia conquista del mondo.
La nonna non voleva che giocassi per strada con altri bambini. Era pericoloso; in fondo alla via c’erano ancora macerie del tempo di guerra (molti anni dopo, quando spianarono l’area, trovarono una bomba inesplosa).

Sui muri erano affissi manifesti inquietanti che avvertivano di non raccogliere niente per terra; un disegno di Boccasile (credo) avvertiva dei pericoli: un bambino stringeva con una mano il polso dell’altro braccio, insanguinato e senza la mano; aveva raccolto da terra un oggetto somigliante a una penna stilografica che poi era esploso.
Ricordo quel manifesto, ma non l’ho trovato su internet. Era affisso su un muro in via S. Vincenzo.

locandinamine           (immagine da internet)

Uno mi inquietava più degli altri; era la pubblicità del collegio Tumminelli: due ragazzini, maschio e femmina abbracciati, con i libri sotto il braccio che camminavano sorridenti fra le rotaie della ferrovia.
Quando uscivamo a passeggio mi tenevano per mano e le raccomandazioni erano continue: mi facevano sentire protetto. Immaginavo che questo dovessero fare i grandi, anche se a volte erano eccessivi.
E allora quei due ragazzi? Non era pericoloso per loro camminare fra i binari?

                                                         (immagine da internet)       tumminelli2 copia                   

Un pomeriggio, dopo pranzo la nonna andò a riposare, ed io rimasi a leggere un giornalino in sala. Mi venne la tentazione all’improvviso; muovendomi silenziosamente uscii da casa senza chiudere l’uscio e scesi in strada. Tenendomi lontano dalla zona delle macerie presi poi a sinistra. Delle persone camminavano e le seguii, così arrivai al ponte di ferro che scavalcava la ferrovia. Mi pareva tanta gente; mi giravano attorno e poi salivano i gradini.
Salii anch’io e camminai su quel ponte, che in realtà era poco più che una passerella, poi a metà circa guardai sotto e mi fermai. Sentii il peso della disobbedienza e tornai indietro.
La nonna ancora dormiva. Non dissi nulla di quella piccola avventura, ma fui orgoglioso di averlo fatto. Altre volte dopo feci piccoli giri attorno. Una volta feci tutta la via Pasubio e in fondo vidi il Monumentale, dove mi portavano il giorno dei morti; un’altra volta attraversai la piazza e arrivai alla Chiesa dell’Incoronata, dove mi avevano battezzato.
Un mattino presto di settembre mi svegliai e andai sul balcone; la nonna ancora dormiva. C’era una gran silenzio e il portone di una casa di fronte si aprì. Uscì una famiglia con tanto di figli, suocera e valigie. Camminarono fino all’arco di porta Garibaldi dove sostavano i tassì, macchinone verdi e nere con le bombole del gas sul tetto. L’autista aiutò a caricare i bagagli mentre la famiglia si sistemava in vettura.
– Alla stazione. – disse il padre; lo sentii, anche se non erano vicini: partivano per le vacanze.

A volte zio Peppino veniva a pranzo dalla nonna. Si era sposato e lavorava in un’ azienda di trasporti. Aveva una macchina aziendale che parcheggiava davanti al portone: un’Alfa Romeo 1900 nera. Aspettavo che finisse di mangiare, poi attaccavo la manfrina del “giretto”.
Bofonchiava, brontolava, ma la nonna era dalla mia parte; e allora mi faceva salire e fare il giro dell’isolato, poi mi riportava a casa, e prima di ripartire controllava che attraversassi l’androne.
Zio Peppino; d’estate mi facevano fare due mesi di vacanza al lago con mio nonno. Era un periodo noiosissimo perché lui era noiosissimo. Zia Anita era sempre affettuosa e preferivo stare con lei, ma i compiti estivi li dovevo fare con lui. Quando finiva la vacanza tornavamo in treno a Milano, e zio Peppino era là, alla stazione. Usciva dall’ufficio e veniva con la lambretta a prendermi. Non tornavo a casa con i miei; mi metteva in piedi fra le sue gambe, con le mani sul manubrio e mi portava dalla nonna. Era bello tornare a Milano dopo due mesi di assenza e andare a casa della nonna.
Il nonno paterno era geloso e si vedeva, ma era così opprimente stare con lui…
In un periodo delle vacanze di Natale mi volle a casa sua per qualche giorno; non c’era niente di divertente da fare, accanto a un vecchio malato che morì pochi anni dopo, nel 1958. Venne a trovarmi la mamma e nemmeno lei riusciva a stare in quell’ atmosfera opprimente: mi portò fuori, e in un prato a lato della casa giocammo a palle di neve. Quando rientrammo avevo le mani gelate, e il nonno brontolò sull’incoscienza di portare a giocare un bambino con quel freddo.

Quella era Milano, allora: nebbia, freddo d’inverno e la neve. Con la mamma andavo a fare la spesa allo spaccio comunale di via Coni Zugna; e dall’Olona, allora scoperto in quel tratto di strada, vedevo salire la nebbia: si spargeva lenta sul selciato, quasi rotolando; era già fitta quando uscivamo dal mercato con la spesa. E allora sentivo davvero freddo alle ginocchia, perché mi vestiva con i pantaloncini all’inglese e i calzettoni, e il cappotto non mi copriva a sufficienza.
Molte case erano vecchie e scaldate col carbone; l’aria era impregnata di fuliggine e di odore di cavolo bollito. Nella via Cesare da Sesto le case erano vecchie e i negozi freddi, fatte salve le due panetterie che avevano il forno. Il parco di via Solari era triste: si vedeva soltanto il primo tratto dei viali e qualche albero spoglio e freddo e desolato, il resto era nella nebbia.
Sul viale Papiniano passava qualche macchina; fermava al semaforo e sentivi un poco di calore attraversando e passando davanti al motore acceso, ma non sempre, perché molte macchine avevano il motore posteriore.
Il tram attraversava piazza Sant’Agostino e si perdeva nella nebbia di via Solari.
E in tutto questo, che ora sembra desolazione, la città aveva un fascino che oggi è difficile da credere.

Erberto Accinni

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