La Giornata della Memoria

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Auspico che la giornata dedicata all’Olocausto sia occasione per riflettere sul valore della pace nel cuore e della buona volontà, e che ogni informazione che sgomenta possa stare nei cuori a lungo, non esaurendosi nella commemorazione formale.
Che lo sdegno possa sollecitare la ferma volontà di non lasciarsi mai possedere da sentimenti di violenza quale unico modo di risolvere le umane controversie.

Considerate la vostra semenza
fatti non foste a viver come bruti
ma per seguir virtute e canoscenza (Inferno, XXVI canto)

È una giornata dedicata alla commemorazione di una delle tante pagine nere che l’umanità dovrebbe ricordare con sobrietà.
Sempre gli uomini si sono macchiati di delitti orribili. Quello della Shoà è uno di questi, ed è ancora vivo nella memoria perché è relativamente recente e sono ancora vive le persone che l’hanno subita. Altri genocidi del passato sono dimenticati, altri nel futuro lo saranno.
Il 27 gennaio è la data che convenzionalmente è stata dedicata all’evento dalla risoluzione 60/7 dell’Assemblea generale delle Nazioni Unite del 1º novembre 2005. Ricorda l’entrata delle truppe sovietiche nel campo di Auschwitz il 27 gennaio 1945, le prime che scoprirono gli orrori della politica nazista.

Molto è stato scritto e raccontato su questa vergogna della nostra Storia: discorsi accorati, empatici, di ripulsa, di denuncia, di condanna.
Ho spesso pensato che, se non proprio per forma, quantomeno nella sostanza le atrocità della Shoà siano ricordate perché è politically correct farlo, ma dopo un pensiero di circostanza si preferisca passare oltre.
Ho delle riflessioni piuttosto contrastate sull’argomento.
Tacendo sull’egoismo, sulla necessità di non disturbare troppo le coscienze, sul bisogno di non addolorarsi troppo, rimangono comunque dei punti “grigi”.
Hanna Arendt – dopo aver assistito al processo Eichmann a Tel Aviv – ebbe forti tensioni con la sua comunità ebraica per aver affermato che un eccidio così di massa non sarebbe stato possibile se non con la connivenza della classe dirigente ebraica che collaborò con i nazisti.
La sua prima reazione alla vista di Eichmann fu di sconcerto: era un burocrate, non mostrava alcun rimorso; non erano sue le decisioni ma del regime, del quale egli era stato un mero esecutore. E in queste dichiarazioni di Eichmann vide la spersonalizzazione, la mancanza di dialettica interiore; l’intelligenza umana che si adatta a essere strumento.
La Arendt colse che “le azioni erano mostruose, ma chi le fece era pressoché normale, né demoniaco né mostruoso”. Quello che scorgeva in Eichmann non era neppure stupidità, ma qualcosa di molto più negativo: l’incapacità di pensare.
Nel suo libro “La banalità del male” analizzò i modi in cui la facoltà di pensare può evitare le azioni malvagie.
Nella sostituzione dei valori etici e morali compiuta dal nazismo mediante l’indottrinamento globale della società tedesca alla nuova ideologia, intravide le circostanze che impediscono di accorgersi o di sentire che si agisce male.
Coloro che non aderirono alla perversa ideologia scelsero di essere “giudicati da loro stessi” invece che dalla società tedesca dell’epoca; non perché dotati di un “miglior sistema di valori” o perché i concetti di “giusto e sbagliato” fossero radicati nella loro coscienza, ma perché si chiesero come vivere in pace con loro stessi commettendo certe azioni.
La perplessità davanti alla contraddizione con le teorie sulla radicalizzazione del male fino a quel momento accettate, e la relazione chiara tra il problema del male e la facoltà di pensare, la Arendt la espresse con l’allocuzione “la banalità del male“.
La capacità di pensare mette l’uomo di fronte a un quadro senza bene o male, senza giusto o sbagliato. Il pensiero induce perplessità e obbliga a riflettere e a pronunziare un giudizio.
In un trattato scritto per un dibattito su “Eichmann a Gerusalemme“, la Arendt affermò che banalità significa ‘senza radici’, non radicato nei ‘motivi cattivi’ o ‘impulsi‘ o ‘tentazioni’.
Affermò inoltre: “la mia opinione è che il male non è mai radicale ma soltanto estremo, e che non possegga né la profondità né una dimensione demoniaca. Esso può invadere e devastare tutto il mondo perché cresce in superficie come un fungo. Esso sfida come ho detto, il pensiero; perché il pensiero cerca di raggiungere la profondità, andare a radici, e nel momento in cui cerca il male, è frustrato perché non trova nulla. Questa è la sua “banalità”… solo il bene ha profondità e può essere integrale.”

Una giornata della memoria ha una precisa funzione: sapere. E sapendo, fare un ragionamento alla portata di chiunque lo voglia fare, che non rimetterà a posto il passato ma consentirà di vigilare sul futuro: posso passivamente accettare le regole che la società, di tempo in tempo, si dà e applica?
Dove comincia l’indifferenza: quando si accetta ogni atteggiamento senza discriminare, soltanto perché qualcuno lo fa diventare normale? quando si soffoca la repulsione all’indottrinamento?
La mia azione è compiuta perché così fanno tutti? Agisco o sono agito?
È certamente facile spendere minuti del proprio tempo per commemorare le vittime della malvagità, anche se con commozione.
Ma, forse, non a questo servono le Giornate della Memoria. Forse servono per ricordarci che –diversamente dagli animali che vivono in branco e rispettano le regole del branco – gli umani hanno un dono: la capacità di critica.
E il vero peccato commesso non è aver fatto del male, ma averlo accettato senza chiedersi se è realmente espressione della nostra volontà, ed essere così presenti in ogni nostra azione.

Erberto Accinni

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