C’era una volta:le cose che facevano star bene.

natale

Forse non era un granché e forse nemmeno aiutava, ma una volta si faceva la carità.

A Natale comparivano nelle strade dei salvadanai bianchi, ruvidi e con la croce rossa dipinta. Era il momento dell’anno in cui essere obbligatoriamente buoni.

Passando davanti a quei contenitori, gli adulti della mia famiglia mi davano un paio di monete, forse 100 o 200 lire, e mi allungavo per infilarle nella feritoia.

Avevo quattro o cinque anni, e mi insegnavano che ci sono i poveri, e qualcuno lo vedevo.

A Milano li chiamavano barboni, oggi li chiamano clochard.

Anche d’estate indossavano cappottoni logori, e si chinavano per raccogliere le cicche delle sigarette da terra. Con mani ormai marroni per lo sporco accumulato, sfogliavano le cartine delicatamente e lasciavano cadere il poco tabacco rimasto in sacchetti di tela, poi si facevano le sigarette e fumavano. Erano figure che comparivano dal niente e vedevi improvvisamente vicine, e poi alle spalle: innocui, non scomposti, mai violenti.

Fra loro potevi incontrare professori, artigiani, nobili, gente caduta in disgrazia e altri che avevano scelto di vivere così; io allora non lo sapevo, li guardavo e mi dispiacevo per loro, non mi facevano paura.

In piazza sant’Agostino c’era un’osteria all’angolo: andavano lì a mangiare pane e un bicchiere di vino, al caldo e in mezzo ai muratori.

I muratori compravano la mortadella dal salumiere e la mettevano nei panini che si facevano tagliare dal panettiere; appoggiati sui tavolini di marmo dell’osteria si facevano i panini e compravano il vino dall’oste.

A volte vicino ai salvadanai c’era qualcuno che vendeva i francobolli della Croce Rossa, per invogliare i bambini a fare l’elemosina dando loro un piccolo regalo.

Infilavo le monete, ed era un gesto che sapevo essere buono. Non sapevo niente di terzo mondo e di povertà. I poveri per me erano i barboni che mi intristivano quando li vedevo, perché erano buoni, diversamente dagli zingari che rubavano i bambini: questo insegnavano allora.

La gente povera allora c’era. C’era l’arrotino che affilava i coltelli e poi li avvolgeva in carta di giornale e li restituiva alle massaie; c’era l’ombrellaio, quando riparare l’ombrello costava meno che comprarlo nuovo. C’erano le vecchiette, che non chiedevano l’elemosina perché si vergognavano: se qualcuno mostrava una moneta allungavano la mano e ringraziavano, ma guardando sempre in basso, a terra.

Dare una moneta era un gesto buono che ti faceva sentire bene dentro. Seppur bimbo, comprendevo che era una questione di denaro che io avevo e loro no, anche se non sapevo perché.

Il pensiero poi finiva lì. Non sapevo niente di carità pelose, quelle fatte per accumulare punti nell’aldilà. Questi sono stati pensieri successivi, come pure essere misericordioso per tacitare la coscienza.

Era un desiderio di far felice qualcuno per un momento; un desiderio sincero, ingenuo e puro, gesti che fortunatamente ci sono stati, perché erano semplici e semplicemente facevano star bene.

Allora potevo credere che un giorno la povertà non ci sarebbe più stata; ma il mio pensiero di bambino finiva lì, nella speranza che una preghiera il giorno di Natale potesse bastare a mettere a posto le cose.

 

Erberto Accinni

 

 

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