C’era una volta: la storia che si studiava tempo fa

guerra

Recentemente ho visto un documentario sulla fine dell’impero austro-ungarico. Nella storia che si insegna poche parole sono spese sull’argomento, e mi erano quasi sconosciute le cause che hanno determinato il crollo definitivo.
In passato, la scuola della Repubblica Italiana ha molto risentito della retorica fascista che esaltava la prima guerra mondiale come momento di fulgore delle virtù italiane. Questo ha impedito di vedere le facce della verità, ponendo tutto in mano all’interpretazione di parte e a quello che “si decide di dire e diffondere”.
Oggi è un po’ diverso, e credo che comincino a emergere anche altre verità finora sottaciute.

Credo che sia stato l’impero più longevo d’Europa. La famiglia degli Asburgo, nelle sue mire espansionistiche era sovvenzionata dai banchieri Fugger che la aiutarono ad accrescere la sua potenza; ricordo Massimiliano I e le sue politiche per accrescere il potere della casata nel XV secolo; ricordo la frase ironica Bella gerant alii, tu felix Austria nube, coniata per stigmatizzare la politica espansionista del casato. Ricordo Carlo V e il suo impero sul quale non tramonta mai il sole, la loro cattolicità causa della guerra dei 30 anni, l’elezione quasi ininterrotta per 500 anni quali imperatori del Sacro Romano Impero Germanico.
Ricordo però anche che – nei libri scolastici – l’Impero sparisce quasi senza spiegazioni con la fine della prima guerra mondiale: Francesco Giuseppe muore nel 1916, gli subentra Carlo I e con lui la dinastia che ha regnato sulla Mitteleuropa si chiude, lasciando il ricordo di un fasto e un’etichetta che ancora oggi sono rammentati.
La prendo un po’ lontana forse, ma avvisaglie possono essere viste – credo – nel Congresso di Vienna del 1815, in quella infelice frase di Metternich: “l’Italia non è che una espressione geografica”.
Una frase che mostra disprezzo per i fatti accaduti in Europa dalla Rivoluzione Francese a Waterloo, e che trova presto smentita nei moti carbonari del 1828 e poi nella prima guerra di indipendenza che – seppur persa – getta comunque le basi del sentire comune che sfocerà nella seconda e poi nella terza.
Ma l’Italia non è il solo territorio dell’Impero che reclama una identità. Negli anni sessanta dell’800 l’Ungheria fa sentire pesantemente la sua presenza, tanto che l’impero non sarà più soltanto austriaco ma austro-ungarico.
Qualcuno ricorda la poesia “Sant’Ambrogio” di Giusti? Già in quelle rime si avverte qualcosa se l’autore insiste sul “lezzo” di quei soldati di tante nazionalità riuniti in Chiesa, che però alla fine intonano Coro dei Lombardi e fanno scrivere all’autore che il loro principale (Francesco Giuseppe): “gioco che l’hanno in tasca come noi” (non lo possono tollerare).
Tentando un collegamento mentale fra quello che so e quello che ho appreso, un po’ di cose mi hanno fatto riflettere.
L’impero che si era presentato nel conflitto con “uno dei più potenti eserciti del mondo” (v. Bollettino della Vittoria di A. Diaz), nonostante la vittoria di Caporetto già a gennaio del 1918 non era più così potente come nel 1914. Nel Parlamento austriaco, che era l’espressione di 7 popolazioni che componevano l’impero, si facevano strada istanze di autonomia che Carlo I non poteva ignorare. (Ho scoperto che una delle voci era di Alcide de Gasperi, che fu un deputato austriaco per il collegio uninominale della Val di Fiemme).
Mi è venuto di pensare che il progetto wilsoniano dell’autodeterminazione dei popoli non era del tutto farina del suo sacco ma era già nelle spinte dei popoli degli imperi centrali ansiose di una propria identità. Ciò che per Wilson doveva essere un processo democratico di scelta, in realtà era qualcosa che non poteva essere più ignorato.
Sta di fatto che già dal settembre del 1918 le varie “spinte redentiste” presenti nell’impero determinavano – complici gli stenti, le condizioni inumane e le mancanze di rifornimenti – numerosi casi diserzione in un esercito multietnico che non si riconosceva più sotto un’unica bandiera, al punto che i reparti croati litigavano con quelli bulgari, e rumeni e ungheresi, senza che gli ufficiali potessero intervenire. Già nel settembre di quell’anno c’erano frequenti casi di abbandono (difficile definirle diserzioni, anche se il codice militare sull’argomento è molto preciso) di interi reggimenti e anche di divisioni.
Forse è un po’ impietoso riconoscere ora questo fatto mai studiato nelle scuole. Certamente getta qualche ombra sulle fulgide pagine di Vittorio Veneto, ma la storia è storia: si basa sui fatti oltreché sulle interpretazioni, e spesso c’è più verità nei fatti che nelle interpretazioni.
Sempre basandoci sul Bollettino della Vittoria citato prima, la frase “I resti di quello che fu uno dei più potenti eserciti del mondo risalgono in disordine e senza speranza le valli che avevano discese con orgogliosa sicurezza” ora si può vedere con diversi occhi.
Senza togliere nulla al valore dell’esercito italiano, possiamo ora collegare le informazioni che abbiamo con i fatti che la retorica patriottica ha trascurato.
Ignorando l’offerta di Carlo I di trasformare l’impero in una federazione sotto l’egida austriaca, a ottobre del 1918 Praga aveva nominato un proprio Parlamento proclamandosi di fatto indipendente, presto seguita dalla Serbia e Croazia, dalla Romania, Bulgaria e Ungheria; la Croazia si era impadronita della flotta (a Villa Giusti, infatti, nelle clausole della resa la flotta austriaca era citata come bottino di guerra, ma di fatto non c’era). Le diserzioni dall’esercito erano incoraggiate dalle autoproclamatesi nazioni, che chiedevano ai propri uomini di tornare in patria per proteggere il proprio suolo; una situazione che annullava la coscienza comune di un esercito composito che per 4 anni aveva combattuto assieme, e che ora non si riconosceva più sotto una sola bandiera.
Dicevo che non è mia intenzione togliere nulla al valore italiano, ma dal 24 ottobre 1918, un anno esatto dopo Caporetto, la situazione era talmente mutata nell’avversario da rendere possibile la avanzata e la riconquista dei territori persi con la rapidità che distinse i giorni di Vittorio Veneto.
In quegli stessi giorni, l’impero Austro-ungarico – dopo aver avvertito formalmente il cugino alleato Hollenzollern che disapprovò – chiedeva la pace separata e la cessazione delle ostilità, di fatto creando un problema non da poco per le rivendicazioni territoriali italiane stabilite nel patto di Londra del 1914. L’Impero ormai sgretolato rendeva futili le pretese italiane sull’Istria ora croata, e metteva molto imbarazzo fra i vincitori per la spartizione dei territori conquistati.
Wilson inoltre, con la sua proposta dell’autodeterminazione dei popoli, introduceva il concetto di libera scelta dei popoli stessi per ciò che riguardava i territori; non erano più le vittorie di guerra a decidere.
In quel momento di grande incertezza si inserisce la delusione per la “vittoria mutilata” (non soltanto italiana) che rendeva impossibile assegnare per diritto di vittoria ciò che non era più oggetto di trattativa; da qui l’impresa di Fiume per riprendere con le armi quello che la nuova idea di diritto internazionale non poteva consentire.
Il resto come sappiamo fu una faccenda rapidissima; Carlo I non poté fare nulla: quasi 500 anni di impero si erano disintegrati in un mese circa. Il 12 novembre non abdicò ma rese una dichiarazione nella quale si impegnava a non interferire con le scelte del parlamento e si ritirò nei suoi possedimenti; poco dopo nasceva la repubblica austriaca e una vera confusione istituzionale durata 4 mesi, fino a quando l’ex-imperatore si risolse all’esilio in Svizzera e la neonata repubblica poté procedere allo scioglimento del governo imperiale.

I vincitori si prepararono a sedere al tavolo della pace per congegnare una “pace ingiusta” che obbligava la Germania a condizioni onerosissime e umilianti e creava altre situazioni del tutto insoddisfacenti.
È facile da dire ora che sappiamo cosa è successo dopo e ancora una volta i fatti ci aiutano a capire, ma tutti quegli statisti riuniti a Versailles – contesi fra un nuovo concetto di giustizia e la vecchia regola che chi vince si prende tutto per diritto delle armi – contribuirono a creare le premesse per la seconda guerra mondiale.
Nacque però una timida idea, anche se rimase lettera morta per altri venticinque e più anni: l’Organizzazione delle Nazioni Unite.

Erberto Accinni

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