C’era una volta: l’inflazione -2

euro

Fino a qui si è detto di quanto sia intrecciata la storia dell’umanità a quella dell’inflazione. Però altre considerazioni si sono insinuate trattando l’argomento. Da sempre l’uomo ha creduto che mettere da parte qualcosa per i tempi bui sia una buona idea.

Una volta sotto il mattone, un’altra nel materasso, un’altra ancora in banca dove frutta interessi, comunque c’è chi ha messo quattrini da parte sottraendo denaro alla massa circolante. Occorre considerare questa “propensione al risparmio” per collocarla nel discorso più ampio; si faccia quindi attenzione a non confondere la domanda di moneta con il risparmio monetario.

La domanda di moneta dell’intera collettività si ottiene sommando la domanda di moneta di tutti i soggetti che ne fanno parte.

La domanda di moneta di un soggetto economico è una parte del reddito individuale disponibile, cioè liberamente spendibile.

Esempio: un soggetto ha un stipendio mensile di € 1.000,00, di cui

€ 500,00 spesa in beni di consumo

€ 300,00 denaro detenuto in contanti

€ 200,00 deposito bancario in conto corrente

la sua domanda di moneta è di € 500,00 (300,00 + 200,00): questa è la parte di reddito che egli detiene sotto forma di moneta.

La domanda di moneta di un soggetto però non va confusa con il risparmio che è dato dalla differenza fra il suo reddito e la spesa per i suoi consumi: €1.000,00 – €500,00=  €500,00.

La domanda di moneta invece del sistema economico è una parte del reddito nazionale.

Dopo questa piccola ma importante precisazione, continuiamo nella nostra carrellata sulla storia dell’inflazione.

 Nella Spagna del XVI secolo il potere di acquisto era inferiore di molto a quello di ottant’anni prima a causa dell’abbondanza di moneta: un bene che si poteva acquistare con 2 ducati ottant’anni prima, nel XVI secolo valeva cinque o sei o anche più volte.

In Francia, l’aumento dei prezzi dovette sembrare preoccupante se Carlo IX, nel 1563 promosse un’inchiesta sulle sue cause spingendo il Signor di Malestroict, suo consigliere (1566), a occuparsi del problema; e anche JEAN BODIN, in un testo del 1578 “La reponse au paradoxe de Malestroict touchant l’enricherissement de toutes choses et le moyen d’y remedier”, attribuì l’origine dell’inflazione all’abbondanza di oro e argento in circolazione in Europa.

Egli diceva: “Io trovo che il rincaro che noi osserviamo dipende da tre cause. La principale e quasi la sola (che sinora nessuno ha toccato) è l’abbondanza di oro e di argento che in questo Regno (Francia) è oggi ben più grande di quanto non fosse quattrocento anni fa”.

La seconda occasione del rincaro è data in parte dai monopoli.

La terza, la carestia, causata tanto dalle esportazioni quanto dallo sciupio.

L’ultima è il piacere del re e dei grandi signori che accresce il prezzo delle cose che “amano”.

Il grande giurista proseguiva costatando che nel regno c’era sovrabbondanza di metalli preziosi giacché “lo spagnolo, che non ha modo di vivere senza la Francia, essendo inevitabilmente costretto a prendere di qui grani, le tele, i drappi, il pastello, la robbia, la carta, i libri, nonché i manufatti di falegnameria e in genere d’artigianato, va a cercare per noi in capo al mondo oro, argento e spezie…”.

In Italia, nel 1588 Bernardo Davanzati, sulla scorta di Bodin, mise in relazione l’aumento dei prezzi con l’afflusso di metallo prezioso americano. Nella sua “Lezione delle monete”, scriveva che le navi spagnole tornando dall’America con carichi di preziosi “hanno fatto crescere i pregi delle cose l’un tre”.

Il primo tentativo di studi sperimentali sulle cause dell’inflazione del 1754, si deve a Gian Rinaldo CARLI RUBBI (Delle proporzioni de’ metalli monetati in Italia dal XIII secolo fino al XVII), che comparò l’aumento dei prezzi nell’Italia nel XV secolo (1450-1500) a quello del 1744-55 su tre generi (vino, grano, olio) espressi sia in moneta di conto, sia in peso d’argento, sia in peso d’oro.

 Proseguendo nella nostra breve trattazione, giungiamo a uno dei periodi che hanno segnato un evento epocale nella storia moderna. Figlia della guerra di Indipendenza delle Colonie Americane – che comportò nel neonato Stato un’inflazione di proporzioni impreviste – la Rivoluzione Francese, dal 1789 al 1796 registrò un’inflazione al 143% mensile; in seguito, inflazione e deflazione si alternarono per lunghi periodi. Prima dell’istituzione della Banca Centrale di Francia da parte di Napoleone Bonaparte, la moneta scomparve e fu sostituita nel 1792 dall’”Assegnato” (una forma mista tra la cambiale e il titolo di stato), garantito dalle proprietà immobiliari confiscate alla nobiltà e al clero. A causa però dell’eccessiva emissione, il suo valore colò a picco nel giro di pochi anni, costringendo il governo a imporne il corso forzoso, per poi eliminarlo del tutto.

Di storiografia sulla rivoluzione dei prezzi si può parlare soltanto nel XIX secolo, e sono studi empirici. Tra gli studiosi più in vista abbiamo MALTHUS (1766-1834 – Principi di economia politica) e successivamente James Thorold ROGERS (1823-1890 – Interpretazione economica della storia) che indicò la causa principale del rincaro nelle frodi monetarie avvenute sotto Enrico VIII e Edoardo VI.

In Italia, le prime e rilevanti ricerche si hanno alla fine dell’800: Dario Bartolini, nel 1878, pubblicò uno studio sui prezzi e i salari di Portogruaro durante il XVI secolo; poco dopo, Nunzio Federico Faraglia studiò i prezzi del grano nel Regno di Napoli, evidenziando che il rialzo dei prezzi era da attribuirsi alla errata politica monetaria dei governi napoletani e alla scarsità di moneta nel Reame.

 Durante la prima guerra mondiale e con le crisi economiche successive si ebbero elevati rialzi dei prezzi: è tristemente noto il caso della Germania postbellica.

 Gli stratosferici risarcimenti imposti dai vincitori a un paese già piegato dalla sconfitta, si tradussero in una iperinflazione; i salari dovettero essere pagati giornalmente giacché il loro valore si abbatteva con una velocità tale da azzerarli. I guadagni, spesi subito per l’acquisto di generi alimentari, aggravarono la scarsità dei beni in circolazione. Non andò meglio all’Austria né all’URSS, dove l’inflazione arrivo al 13.535%!

 Il fenomeno inflazionistico si presentò in tutta la sua drammaticità colpendo sia i vincitori che i vinti. Dopo picchi all’insù, il livello dei prezzi lentamente riprese a stabilizzarsi.

 Occorre un cenno di memoria anche per l’episodio economicamente più grave del secolo scorso: il martedì nero di Wall Street. Preceduto da mesi di “speculazioni finanziarie” che fecero lievitare a dismisura il valore delle azioni, il 29 ottobre 1929 ci fu il crollo: furono scambiate 12,9 milioni di azioni al ribasso, trascinando sul lastrico una intera economia. È indicato come fattore decisivo della “Grande Depressione” che colpì l’America, ma che si ripercosse in Europa aggravando molte situazioni già precarie.

 Si riprese a parlare di storia dei prezzi soltanto alla fine degli anni ’20 del secolo scorso.

Il fascismo diede vita a una politica di tipo liberista, e fino al 1925 il controllo dello Stato fu posto su alcuni settori dell’economia per conservare l’appoggio al regime da parte dei detentori del grande capitale.

Purtroppo, però, le importazioni delle materie prime erano largamente più alte delle esportazioni, e questo causò l’aumento dei prezzi e un preoccupante processo inflazionistico: 150 lire, nel 1925 potevano essere scambiate per una sterlina.

Mussolini fece una manovra deflazionistica fissando il cambio con la sterlina a 90 lire (“Quota 90”). La fiducia delle grandi banche internazionali, specie quelle americane, dopo “Quota 90” incluse la lira tra le monete considerate stabili. Il movimento di capitali dagli Stati Uniti a favore del mercato italiano si vivacizzò, ma la rivalutazione della lira si ripercosse in generale in modo negativo sulle esportazioni, le quali subirono una forte contrazione.

La stabilizzazione monetaria aiutò le imprese che operavano in regime di concentrazione industriale; le piccole e medie industrie, al contrario, strozzate dalla contrazione del credito, fallirono o vennero assorbite dalle grandi.

La manovra deflazionista ebbe degli alti costi sociali. I primi che subirono gli effetti negativi di “Quota 90” furono gli operai; la diminuzione del costo della vita atteso fu pari solo all’1,3% e non compensò il drastico taglio dei salari. Soltanto i risparmi dei ceti medi continuarono a garantire il consenso al regime.

Negli anni 1929-32 la produzione industriale italiana subì una contrazione pari al 15-25% con punte superiori al 30%, in specie nei settori tessile, metallurgico e meccanico.

Si ridussero gli stipendi nel settore industria, commercio e agricoltura, e a dicembre del 1930 fu annunciata anche la riduzione del 12% dei salari di tutti gli impiegati dello Stato. I consumi e il mercato interno si contrassero; le esportazioni, già in crisi per effetto di “Quota 90”, furono colpite definitivamente ponendo fine al flusso dei capitali internazionali.

Per sostenere i prezzi e i profitti, quindi, le strategie usate ebbero come risultato la crescita della disoccupazione: negli anni 1932-33 furono un milione i lavoratori nel solo settore secondario che persero il posto di lavoro.

Il fascismo intervenne sulla crisi cercando di porre fine alla dipendenza economica dell’Italia da altri Paesi. Nell’ambito dell’agricoltura, poiché le importazioni di grano dall’estero incidevano per il 15%, si aumentò la produzione del grano affinché soddisfacesse il fabbisogno interno, rinunciando contemporaneamente alle esportazioni.

La “Battaglia del grano”, congiuntamente alla ‘Bonifica integrale’ delle aree malsane, e un piano con forti misure protezionistiche, furono gli interventi attuati per arrivare all’autosufficienza nella produzione granaria. La cerealicoltura estensiva sostituì ogni altra coltura e il ripristino del dazio sul grano permise agli agricoltori buoni ricavi.

Se la politica agricola legò al regime anche i grandi latifondisti del Sud, per contro sottrasse spazi ad altre coltivazioni sulle quali si basava l’economia contadina del mezzogiorno.

In definitiva, dal 1929 lo Stato italiano divenne ”assistenziale”.

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