C’era una volta: la voglia di scrivere

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Mi è stato inviato un link da andare a vedere, e sono andato a vedere.
È il sito di una casa editrice – della quale non faccio il nome per ovvie ragioni – che pubblica opere inedite.
In internet si possono trovare un po’ di occasioni simili. Con qualche variante, frutto della fantasia di chi fa la proposta editoriale, sostanzialmente è offerta la medesima tipologia di contratto.
Dopo i primi contatti e l’invio del proprio lavoro si riceve un parere editoriale, spesso favorevole; poi la proposta: pubblicare con l’impegno di acquisto di tot copie del proprio lavoro al prezzo di tot. Alcuni lo chiamano “contributo” altri “co-produzione”.
Spesso è assicurata la diffusione in alcune librerie, a volte tramite la rete di distribuzione di case importanti.
Talvolta, per invogliare all’adesione, si rammentano casi famosi come quello di Moravia, che pare abbia pubblicato il suo primo romanzo a pagamento; si rammenta la vicenda di Tomasi di Lampedusa che fu rifiutato da Elio Vittorini (ma poi pubblicò e senza pagare).
Sempre in internet ho letto svariati commenti a queste proposte. Ho letto giudizi forti, quali “fregatura”, per dirne uno; ma uno in particolare mi ha attratto. Un commentatore di queste proposte, forse egli stesso autore di scritti, ha fatto una considerazione: perché pagare per pubblicare un mio lavoro? È come pagare per essere assunti in un’azienda qualsiasi. Se il libro è buono, una casa editrice ci investe sopra perché ci crede, e sopporta i rischi commerciali.
Penso che chi inizia a scrivere, difficilmente veda realisticamente il futuro del suo racconto. A ogni pagina che aggiunge, sogna il futuro del suo “pupo” come una mamma che sogna per il suo nascituro; con sottili paure che scaccia rapidamente: nascerà sano? Avrà il suo posto nella società? Diverrà adulto senza guerre, senza dolori, senza delusioni?
E le sue certezze di dare il meglio di sé non vogliono guardare oltre, non vogliono frangersi sulla realtà che immagina.
In un sito – che ancora una volta non nominerò per le solite ovvie ragioni – ho trovato l’elenco degli autori pubblicati, la loro biografia e l’incipit del proprio lavoro. Mi astengo dai giudizi e invito gli interessati a cercarsi sia il sito che l’autore; non è difficile.
Un lavoro è stato pubblicato senza la necessaria operazione di editing.

Mi è capitato – lavorando per la mia casa editrice – di valutare gli scritti proposti. Non poche volte ho trovato lavori mal fatti, mal scritti e mal presentati. Ho sempre pensato, in questi casi, che se l’autore per primo non tiene al suo lavoro, non c’è ragione che debba tenerci io che gli devo dare un parere editoriale.
Valutando i suoi racconti da inserire in concorsi letterari, o un romanzo proposto per la pubblicazione, spesso mi sono chiesto quali sono le motivazioni che lo spingono a scrivere: una eccessiva opinione di se stesso? Il bisogno di darsi visibilità? Una emozione interiore canalizzata su carta? La necessità di catarsi attraverso la scrittura? Un fine terapeutico che alcuni psicologi consigliano?
Spesso, dagli scritti traspare qualcosa della personalità dell’autore, e qualche volta anche la motivazione. Ci sono autori che “scrivono come parlano”, altri che fanno sfoggio dei propri studi classici, altri che usano toni presupponenti ed esagerati, altri ancora che – dando per scontato che tutti sappiano di cosa stanno scrivendo – non reputano necessarie nemmeno poche parole di introduzione all’argomento. Infine ci sono quelli che iniziano a scrivere di un argomento e concludono descrivendone un altro: quello che a scuola si definiva “andare fuori tema”.
La casistica è ampia, una però è la più diffusa: in ogni concorso si invitano i partecipanti a non inviare scritti superiori alle 3-5 cartelle. Bene, pervengono molti racconti di 10 – 15 pagine e oltre, spesso non riletti e con errori di battitura, di punteggiatura, di spazi, di “accapo”, refusi ed errori grammaticali. E questi mi fanno immaginare una cosa così assurda da sembrare divertente; mi immagino l’autore che pensa:
– Bene! Io l’ho scritto, adesso fa’ qualcosa anche tu: mettilo a posto.
Come se fosse compito mio renderlo bello! Mi rammentano un aneddoto di Rostand, mi pare che fosse suo. Un esordiente gli diede un suo manoscritto chiedendogli di leggerlo e mettere qualche virgola, se necessaria.
Rostand, dopo averlo letto, gli disse, più o meno:
– Giovanotto, lei mi dia le virgole, che al testo ci penso io.
Mi è capitato di gettare un occhio su libri pubblicati e scoprire errori di battitura, di ortografia e quant’altro. Immagino che l’autore abbia delegato questo compito all’editore, ma poiché il lavoro di revisione è costoso, questi non l’ha fatto e ha pubblicato “così com’è”.
Mi sono chiesto: vedendolo, l’autore ne è rimasto soddisfatto?
A parere di un libraio molto noto e mio amico di infanzia, escono circa 3-400 novità editoriali al giorno. Non saprei dire se è un’esagerazione o è veramente così, ma la domanda è: cosa dovrebbe invogliarti a leggere una di queste opere?
Forse il lettore sarà un amico, un parente, la moglie; ma di fronte a questa quantità industriale di editi, tolto qualche caso, chi si prende la briga di leggere o informarsi delle novità?
Una volta sul tram si potevano vedere persone con un libro in mano. Ora in mano hanno il cellulare, e gli auricolari nelle orecchie (quando ci va bene! Altrimenti dobbiamo sentirci la loro musica).

Dove voglio arrivare? Voglio scoraggiare dallo scrivere? Voglio deludere i potenziali scrittori prima che lo faccia la vita?
Tutto è molto difficile in questi nostri tempi moderni. Avere una passione, un desiderio, una aspirazione… è molto nobile, soprattutto perché non ci proponiamo di diventare dei buoni spacciatori di crack.
È soltanto uno l’avvertimento che si può immaginare di dire: pensare di saper scrivere (così come pensare di essere un buon impiegato) non è essere un buon scrittore (e nemmeno un buon impiegato).
Cento scrivono. Di questi, una parte ci provano e altri sono sicuri di riuscire. Fra questi molti si impegnano e altri lo trovano facile o difficile o faticoso. Sempre nei nostri cento c’è chi si arrende e chi invece vuole arrivare alla fine; chi non sa come continuare, chi lo sa, chi si inventa una fine; chi parte con una idea da sviluppare e chi non ha la minima idea di cosa succederà pagina dopo pagina.
Per finire, fra i nostri cento, la stragrande maggioranza, difficilmente dopo aver scritto avrà il coraggio di tagliare dei pezzi. Gli sembrerebbe di amputarsi parti del corpo: se lo scrittore è maschio, non dico quali.
Alla fin fine: ho sentito alcuni definire il proprio romanzo “biografico”. Mai definizione – a mio parere – è più inutile.
Per una ragione o per l’altra – ma soprattutto perché è frutto della propria fantasia e cultura – ogni romanzo è biografico, con tendenza all’autobiografico.
Si può scrivere qualcosa che non si conosce e che non appartiene alla propria storia?
Un contabile scriverebbe mai un romanzo sul lavoro di un chirurgo o di un costruttore edile o di un tassista senza conoscere il loro mestiere? Potrebbe descrivere un impianto di fegato o i rischi insiti in una cattiva progettazione di un ponte?
Si sarebbe facilmente smentiti; il lavoro perderebbe di credibilità e con già tante false cose in giro, chi sprecherebbe tempo per lui?

Erberto Accinni

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