commento al femminicidio

femminicidio

Gent.mo Signor Avo,
ho dato più visibilità al Suo commento perché approfondisce alcuni aspetti del mio intervento sul femminicidio che trovo molto interessanti. Grazie.
Fino a qualche tempo fa, ritenevo il Cristianesimo colpevole della discrasia, ma ho dovuto ricredermi: più o meno tutte le religioni negano il femminile, la donna. In Cina fino al 1930 circa c’era l’abitudine di fasciare stretti i piedi delle bambine, la pratica del Loto d’oro, cosicché a prezzo di molto dolore non potessero scappare; in Egitto si nega la soddisfazione sessuale tramite l’infibulazione; nella guerra fra Hutu e Tutsi, alle donne era tagliato il seno perché non potessero allattare. In tutto il mondo esiste il femminicidio. In tutto il mondo l’uomo afferma con la violenza di esser maschio; in tutto il mondo l’uomo si accanisce contro l’essere più debole. La cattiveria sembra essere maschile, a dispetto del genere femminile del nome. Perché?
Innanzitutto la cultura, che è frutto di millenni di consolidate abitudini rafforzate dalle religioni. Ma come si è arrivati a questo, se è vero che in origine, nell’età dell’oro ormai dimenticata, l’elemento femminile era considerato la fonte del Tutto: la madre genitrice?
Eppure, in quel tempo ormai visto come una favola, più che mai i ruoli erano distinti: l’uomo procurava il cibo e la donna cucinava, accudendo alla “famiglia” e alla “casa”. Ho una sola risposta plausibilmente logica: c’era amore, che è rispetto, riconoscimento e stima; in una parola: armonia; ma anche qualcos’altro, che credo abbia altrettanto valore: i figli non erano della famiglia ma della comunità. Non essendoci niente da lasciare in eredità non c’era il bisogno sfrenato di possesso che è la caratteristica della società seguente all’età aurea.
L’armonia che esisteva, era nel cuore. Era il necessario equilibrio fra bene e male. Quel giusto amalgama di Yin e Yang che il tempo ha trasformato in dicotomia. Non so perché e come l’equilibrio si sia sciolto e dissolto per sempre. Constato soltanto che è andata così. In una società vieppiù squilibrata, la forza ha prevalso sull’impalpabile sentimento di continuità che l’elemento femminile aveva, e offriva semplicemente come ingrediente abituale della vita per mantenere l’armonia.
Il “senso di continuità” non è più nemmeno un ricordo, e forse occorre spendere qualche parola. Se vogliamo comprenderlo possiamo pensare a una foresta, dove gli alberi crescono, si spogliano d’inverno e fioriscono in primavera in un continuo mutare, restando sempre alberi. Nella foresta scoppiano incendi che seguono un percorso, sacrificando alberi per farne vivere altri, in modo che sempre si possa parlare di foresta sapendo cos’è, senza bisogno di spiegazioni. La natura prevede la morte violenta, per dar continuità alla vita. Nella natura ancora vive l’armonia, se l’uomo non la sciupa.
Forse il ricordo di questo ancestrale concetto sopravvive nell’inconscio femminile, rendendo la donna inspiegabile nei comportamenti per un uomo che non ha scrupoli ad abbattere la foresta per fare un’autostrada.
Si è disequilibrato prima l’elemento maschile o quello femminile? Non ho una risposta: non c’ero quel giorno. Oggi è facile parlare di uomini resi insicuri da false attenzioni materne, e quindi spiazzati di fronte donne; la cultura – da un certo periodo in poi – ha suffragato la perdita di equilibrio e conseguentemente il prevalere del maschile sul femminile. La donna – per quello che la storia ci tramanda fino a oggi – da sempre ha dovuto subire, affinando arti di sopravvivenza che nel tempo l’hanno fatta divenire soggetto di diffidenza: le arti maliziose per ottenere qualcosa…Se fratellino e sorellina litigano, il maschietto da uno schiaffo, la femminuccia piange e attira su di sé l’attenzione. I genitori rimproverano il maschio e la femmina ne esce tronfiamente vincitrice. Almeno in questo possiamo riconoscere le origini della diffidenza del maschio, che si perpetuerà per tutta la vita. Se il maschio è “piantato”, la società fa quadrato; giustifica le sue azioni e amplifica le reazioni possessive. In qualsiasi processo, familiare o giudiziario, sarà ventilato il torto di non esser stato sufficientemente “uomo” da tenersi la “sua donna”, anche se questo spesso non è evidente ma subdolo.
La società sempre ha cercato di mettere al riparo il maschio da questa sconfitta, ma mai ha insegnato che le certezze sono nel silenzio e lontano dai cellulari, facili strumenti di comunicazioni distorte.
A quindici anni fui lasciato dalla mia fidanzatina. Mi venne il dolore, la tristezza, provai il senso del fallimento e dell’abbandono, ma mai il pensiero della violenza, come non viene a molti di noi. Nessuno pensò mai di aiutarmi a rielaborare quegli stati emotivi trasformando la sofferenza. E sarebbe stata un’occasione di imparare l’accettazione; la possibilità di trovare in me la forza che supera il dolore e lo trasforma. In una parola: l’amore per me, che ho diritto di essere, anche se non amato come volevo da una ragazzina che aveva deciso di non voler più essere la mia. Sento la donna lamentarsi di non essere “rispettata”. Lo considero un ripiego verbale, laddove il termine esatto dovrebbe essere “amata”.
Vero è anche che l’amore non è dovuto ed è una conquista, che servono donne che non abbiano dimenticato il femminile, privilegiando soltanto la femminilità nelle forme esteriori. Ma per amare occorrono pensieri che soltanto raramente la società ha avuto. Il processo mentale è: la mia donna mi fa i miei figli ai quali lascerò la mia eredità. Se la mia donna non è fedele, io rischio di lasciare ciò che possiedo a uno che non è del mio sangue. La società basata sull’avere, con difficoltà ammette l’essere. Un matrimonio con cento e più invitati non afferisce al concetto di “essere”, ma a quello di “apparire” e mostrare che si possiede. L’uomo non dice “sono sposato”, dice “ho moglie”, “ho famiglia”.
Esiste una violenza verbale, oggi, che da sola basta a far paura. È talmente tanto diffusa da aver fatto dimenticare che esistono reati quali l’insulto, la calunnia, la minaccia verbale, il vilipendio, l’offesa. “Bastardo” è l’insulto fra i più sentiti, assieme a “figlio di..”, “checca”, e altri ancora. Cosa implicano è chiaro a tutti. Forse le origini del tutto stanno nella sessualità negata, concepita come aspetto lubrico e non ludico; in quello che ci si aspetta da un uomo, spesso convogliato sugli atteggiamenti esteriori dalle pubblicità e dagli esempi. Soddisfatti i bisogni primari, secondari e oltre, oggi si concentra l’attenzione sui generi sempre più voluttuari, spacciandoli per necessità. Si è molto lontani dal concetto di consumare quello che serve perché tutto serve, più di tutto il superfluo.
Nell’età aurea, la donna sceglieva l’uomo col quale fare i figli, e non necessariamente era lo stesso per tutta la vita. L’amore (che implica il rispetto), non aveva le caratteristiche di esclusività che la società da un certo momento in avanti ha attribuito; oggi, anche l’uomo più tollerante e aperto, prova comunque un senso di fastidio all’idea che la sua donna possa essere in intimità anche con altri. Figuriamoci allora cosa può provare l’uomo del bar nel dover ammettere con gli amici di merende di essere stato “abbandonato”. Nessuna legge potrà mai proteggere la vita, e quindi fermare il femminicidio. I codici redatti da mente umana sono fallibili; sentimenti di onore e giustizia, se non albergano nel cuore non trovano spazio nella società. Educare le persone potrebbe essere la strada, ma pochissimi sono in grado di educare, e poi “occorre ammetterlo” non tutti sono soggetti educabili in una società nella quale occorre una legge per spiegare ciò che è lecito.
La legge è la reazione alla violenza, di qualunque tipo, sia che debba punire sia che debba prevenire. È la minaccia che dovrebbe fare da deterrente. Nella legge è implicita l’ammissione della cattiveria, e la necessità di tenerla sotto control lo.
Ora a fatica si è scritta una norma che punisce la prevaricazione del più debole, ma ancora non lo tutela. Non può entrare nel cuore e cambiarlo: al più lo scoraggia con la minaccia della punizione che seguirà, nel modo più severo che tutti i benpensanti auspicano. E allora forse qualcuno ” per mera convenienza” capirà che non può più. Altri impareranno che non possono dar libero sfogo al rancore. Una minoranza più fortunata forse rifletterà sulla correttezza del suo sentimento, che ha sempre convenzionalmente chiamato “amore”.
Oggi non possiamo riportare la società ai valori ancestrali, perché nessuno lo vuole. Preso atto di questo, si possono soltanto emanare leggi che contengano i fenomeni di violenza, ma che non li fermeranno preventivamente, soprattutto negli ambienti degli irriducibili sostenitori della vita facile e senza pensieri, della vita sulle spalle e alle spalle del prossimo. Sempre qualcuno pagherà: il cane da vivisezionare, la natura da piegare alle necessità, la donna o il bambino. È la legge del più forte, sorretta da millenni di cultura laica e religiosa. E i più forti sono gli uomini, nei quali la memoria del cuore si è spenta, lasciando un vuoto, un buco nero. Un big bang contornato di rosso che ha divorato il valore della conquista dell’equilibrio. Resta soltanto da costatare che la legge è la pezza imbevuta di acqua fresca che la società mette sulla ferita, non essendo in grado di autodisciplinarsi.
postato da av02254 il 23/10/2013 10:04

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