È morto Mario Rossi

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Da un po’ di tempo non sentivo più parlare di lui, non avevo più sue notizie, nessuno lo nominava più.
Era un conosciutissimo anonimo; lo ricordo quando firmava per l’otto per mille alla chiesa cattolica ma anche quando firmava tutti i moduli del comune, persino quando spiegava l’uso del codice fiscale. Mario Rossi era un cittadino modello, anche se anonimo.
Già da tempo era invecchiato e gli era rimasto poco da dire. A lui si preferiva l’altrettanto anonima figura di Pinco Pallino modernizzato in Pinco Palla, più adatto a rappresentare i problemi, anzi le problematiche della gente.
Adesso so che è morto. L’ho scoperto quasi per caso, perché era tanto anonimo da passare del tutto inosservato, anche se un nome e cognome anagraficamente corretti ancorché banali lo rendevano un personaggio vivente.
In un mondo più moderno, il rispetto della privacy l’ha reso sempre più emarginato, poi milioni di chiacchiere l’hanno seppellito nella memoria.
Sì, perché Pinco Palla è più adatto per il linguaggio attuale anche se non sarà mai un cittadino modello, e nemmeno un cittadino e basta; tutt’al più sarà utile per le molte frasi prolisse e insensate che Giusy scambia con Imma. Già, perché in un mondo moderno, anche Giuseppina e Immacolata trovano sconvenienti i loro nomi di battesimo che denunciano le loro origini; se ne vergognano e preferiscono essere americanizzate. Così c’è un proliferare di Marika, Vanessa, Simona, e Christian e Mattia, in un crescendo di qualunquismo. Ricordo però con simpatia che dopo Italia-Germania del 1970 un padre diede alla figlia appena nata il nome dello stadio messicano: Azteca.
Rimangono i cognomi a toglierci i dubbi, ma chi si presenta più col cognome?

Ai tempi di Mario Rossi esisteva la cognizione del proprio stato sociale e lo si viveva con consapevolezza; chi era operaio non si nascondeva, semmai si rammaricava di non sapersi esprimere come il diplomato. Sapeva stare al suo posto e si faceva tassare e buggerare con dignità. Non sostengo che fosse giusto così; però che silenzio c’era, se confrontato al berciare di oggi.
Si sognava di poter avere, un giorno, prima o poi; si sognava in solitudine, con rispetto, ed era una aspirazione interiore. Contornati da brutture alienanti, oggi, per sognare “ci si fa”.
Ora, qui al nord, tutti o quasi sono immigrati. I pochi autoctoni rimasti, che a fatica si erano abituati negli anni ’60 ai costumi saliti dal sud Italia assieme ai meridionali, ora devono riabituarsi ai costumi di altre etnie, che si chiamano però “altre culture”, come se sentire schiamazzare in arabo alle due di notte rendesse la faccenda meno fastidiosa e più colta.
Lo so: pare un discorso leghista che vuole schernire i costumi non nordici; facciamolo per quelli che non credono a questo becero luogo comune; perché non credo che Sciascia, e Tomasi di Lampedusa si siano vergognati per esser nati al sud, ma Giusy e Imma sì! Non vogliono sapere di emigrazioni da un Sud lacerato da sempre da una piaga endemica. Dove è la differenza, allora?
In tante cose… ma in definitiva in una sola: l’istruzione.
Ormai dovrebbe essere noto a tutti che l’istruzione non è per tutti, fatta salva l’alfabetizzazione di base. Un tempo era il crinale che faceva la differenza, oggi è soltanto il ricordo di una collina che è stata spianata perché non è necessaria; ne sopravvive un po’ nei quiz televisivi.
Ma c’era un tempo in cui era peccato grave scrivere po’ con l’accento invece che con l’apostrofo. Un tempo nel quale il doping costava la squalifica a vita. Un tempo nel quale ogni azione non ortodossa era discriminatoria e comportava l’emarginazione.
Giusy, Imma, Calogero, Carmine oggi diciassettenni non sanno niente di tutto questo. Si vestono uguale, parlano uguale, hanno il cellulare col quale si trasmettono la stessa insipienza; bevono la stessa birra e hanno lo stesso disagio.
Con i loro modi trasgressivi tutti uguali, dietro le loro facce di sfinge tutte uguali quando li prendono in castagna, c’è un problema sempre uguale: genitori senza nessuna ambizione all’istruzione, che insegnano loro cos’è il disagio. E non c’è riscatto: riunirsi in gruppi rumorosi per far casino, guidare le motorette con postura del corpo indolente, buttare a terra le cicche delle sigarette accese, bere come scaricatori di porto, mangiare sbattendo la bocca, come vedono fare in televisione; il tutto condito da un linguaggio codificato, uguale da nord a sud, aggrappato sempre agli stessi stereotipi e mai con un pensiero nuovo.
Ma leggere un giornale? Un libro? Avere delle curiosità non trasgressive? Riuscire a vedere il proprio futuro?
Una massa così uniforme è certamente facile da governare. È caduta l’aspirazione a vivere con consapevole dignità in una società che diviene dignitosa in virtù dei propri componenti; la dignità è diventata libertà di essere e di esprimersi. Poiché è un traguardo faticoso, lo si è sostituito con un invito ad essere se stessi, per quanto schifezza si possa essere: se non sei, puoi sempre fingere, e quasi nessuno si fingerà mai una figura modesta. Bugia, menzogna e arroganza: ecco gli strumenti, non per il successo ma per stare ben nascosto fra i propri pari.
L’unica filosofia che si conosce è quella delle vendite; occorre vendere, e la sobrietà è in contrasto con la necessità di creare la dipendenza dalle cose: per questo esiste la pubblicità, i pubblicitari, i creativi.
Se per idee buone occorre un po’ di cultura, per le altre è sufficiente una dose di cattivo gusto che diventa – in base all’occorrenza – il proprio stile, la propria personalità, il proprio look; tutti eufemismi per dire che, siccome non si è in grado di alzare tutti alla cultura che rende liberi (quelli che ci possono arrivare), allora è lecito sollecitare il peggio e far scadere la società: l’uomo che non deve chiedere mai, l’automobile che dimostra la tua personalità, l’antirughe per sembrare sempre in forma, il fisico scolpito.
Negli anni ’60 ci si alzava dieci minuti prima e si faceva colazione in casa. Oggi i bar, tra le otto e le otto e tre quarti del mattino, rigurgitano di persone assonnate e con la faccia indisponente che – con una confidenza sconosciuta 40 anni fa – ordinano un “cappuccio” (che è il vecchio cappuccino) a un barista che li chiama per nome.
Se non bastano i soldi per una vita basata su esteriorità, ci sono i prestiti a tasso agevolato. E i soldi servono per credere che si possa risolvere il disagio interiore; siccome non bastano mai è necessario abbassare le tasse, poiché non si sa come abbassare i disagi.
Con molto pudore si reclamizza l’acqua che fa fare tanta plin pin, e con altrettanto scarso pudore si mostrano i glutei rassodati dalla crema anticellulite, che il popolo apprezzerebbe meglio se li chiamassero chiappe.

Perché è andata a finire così?
Un tempo c’era il tirocinio non pagato, l’apprendistato. Oggi c’è il precariato che è la stessa cosa con una differenza: prima uno con la terza media cercava un lavoro per cominciare, e in base alle sue capacità si dava da fare per migliorare; oggi uno col diploma vuole il lavoro. Il figlio di Peppone scappava dal collegio perché non voleva studiare e voleva fare il meccanico; adesso il nipote di Peppone non vuole studiare e non vuole fare il meccanico. Per non far discriminazioni con chi si è impegnato, la scuola gli deve una promozione soltanto perché ha fatto opera di presenza durante l’anno scolastico, più o meno con continuità. La società gli deve uno stipendio non da precario, così che possa spendere e consumare e consentire ad altri di produrre. Se le sue conoscenze sono scarse, non importa; la società gli deve, perché è un diplomato e ha fatto sacrifici per anni.
Così c’è abbondanza di disoccupati e scarsità di manovali, facchini, garzoni.
Il vantaggio c’è, comunque: si sono abbattute le barriere sociali e si è creato un disagio veramente comune da nord a sud. A guardar bene forse il disagio è l’elemento più globalizzante di questo recente fenomeno: la globalizzazione.
E Pinco Palla? Questo anonimo sostituto dell’altrettanto anonimo Mario Rossi? Se Mario Rossi aveva dei problemi, lui ha le problematiche, perché anche il linguaggio si è uniformato per rappresentare al meglio il suo stato di anonimo disagiato.
Ma Mario Rossi aveva un codice fiscale e destinava l’8 per mille alla chiesa. Pinco Palla non ha questa dignità; si accontenta di vivere nei fumosi, assurdi, oziosi, ripetitivi e noiosi discorsi della nostra società, dove è spesso un soggetto da usare per fare esempi con una birra in mano. Una società nella quale parlare è importante quanto delegare ad altri le responsabilità e ripetendo tutti le stesse lamentele: che i politici sono ladri, che bisogna fermare la guerra, che la scuola è un diritto di tutti.
Era meglio prima, ai tempi di Mario Rossi?
Non lo so; ma qualcuno lo afferma per nostalgia di un mondo che oggi non sente suo. Una sorta di spiritello reazionario che sta in noi, mai veramente sopito.
Però c’era un tempo in cui si poteva ammettere di non essere all’altezza. Un tempo nel quale il tempo era un valore conosciuto da tutti. Un tempo in cui si ammetteva la possibilità di non crescita economica senza far tragedie.
E per quei tempi, Giuseppe aveva suggerito al faraone di costituire delle riserve di grano, sapendo che esistono i sette anni di vacche grasse e altrettanti di vacche magre; ma allora non c’erano le agenzie di rating, ed era difficile fare gare fra Stati a colpi di PIL.

Bah!
Provate oggi a uscire da questo coro uniforme; provate a dire che sarebbe opportuno ragionare e pensare come individui. Provate a dire che la Chiesa è noiosa perché si è impossessata della spiritualità facendone un monopolio, ma che comunque l’anima esiste indipendentemente da lei, anche se non credo che tutti ce l’abbiano.
Provate a dire che volete essere individui, e che in questo proposito sarete fermi e silenziosi.
Vedrete tanti Pinco Palla corrervi dietro dandovi del qualunquista, o del fascista, o dell’asociale individualista, ma non riuscirete comunque a risuscitare la nobiltà dell’anonimo Mario Rossi.

Erberto Accinni