C’era una volta: papà

marina

Da poco sono entrato in possesso dello studio che era la mia camera di quando ero ragazzo: una libreria, una scrivania, ma anche di uno scatolone contenente documenti della vita di mio padre.
Sono fogli di giornale del tempo di guerra, il suo diario, e altri documenti che ho sfogliato.
C’è una cartella dal titolo “Sagittario”, ed è la nave sulla quale era imbarcato nel 1941, quando per proteggere e così salvare il convoglio tedesco che trasportava le truppe di invasione di Creta, andarono all’attacco di una formazione inglese composta da quattro incrociatori e due cacciatorpediniere, affondando l’incrociatore Perth e costringendo gli Inglesi a disimpegnarsi.
È una cartella interessante: ho trovato persino il verbale dell’azione da lui battuto a macchina (se ricordo bene) e poi spedito a Roma con fonogramma; vecchia carta ingiallita da maneggiare con i guanti tanto è fragile. Fa effetto vedere la testata del foglio: Regia Torpediniera Sagittario. Qualcuno lo ha pubblicato come rarità nel sito di Betasom: io ce l’ho, e ho la minuta originale.

Tra gli ultimi fascicoli della cartella ho trovato la “Rivista del Personale della Banca d’Italia, n. 4” dell’ottobre 1971. All’interno c’erano i fogli battuti con la sua Olivetti nera che non ha mai voluto sostituire; proprio nel mezzo della rivista, sulla pagina di sinistra sotto il titolo: Marinaresca, c’è l’articolo che scrisse per la rubrica. Piacque molto e fu premiato con un cesto natalizio omaggio del Governatore. Era un cesto enorme e pesantissimo, pieno di cose che non immaginavo.
E così ho ricordato l’entusiasmo che lo accompagnò per tutto lo scritto, e anche dopo.
Anche se lo stile è un po’ retrò, lo trovo un gran bel racconto. Lo pubblico in sua memoria.

Capo Tormentina
Le donne, i cavallier, l’arme, gli amori,
le cortesie, l’audaci imprese io canto…
L. Ariosto

Voi siete padronissimi di non credere a quanto vi andrò raccontando, ma avete torto. I fatti si svolsero veramente come li descriverò.
Beh! Diciamo quasi veramente…
Ma del resto che importanza ha? Lettore, non cercavi forse di evadere un poco dalla monotona “routine” quando hai cominciato a leggere il titolo?
Non ti deluderò; ti porterò per mare, dove la vita fra gli elementi è ancora interessante se vissuta con passione.
Peraltro è ormai troppo tardi per ristabilire l’esatta storia dei fatti. Io stesso non ti saprei più dire dove termina la fantasia e incomincia la verità o viceversa.
Ascoltami dunque se ti piace e non mi interrompere con domande.
L’avvio alla conoscenza di Capo Tormentina ebbe inizio quarant’anni fa, e fu a causa del mio amico Paolo; sì, Paolo Consonni, del mare ancora oggi un vagabondo.
Con Paolo ci incontrammo per la prima volta facendo una memorabile scazzottata sotto le “ghie” nel campaccio della Celestia, alla Scuola Macchinisti dell’Arsenale Militare Marittimo di Venezia.
Che botte da “cecati”! Avevamo sedici anni. Non ricordo più il motivo. Eravamo nel 1932.
Ci divisero, quasi districandoci, Capo Tormentina assieme al quartigliere e al serpante, trascinandoci riluttanti in cella di rigore e incarabozzandoci mentre continuavamo a vituperarci a vicenda.
Quando ci fummo calmati, sbolliti i fumi dell’ira, Capo Tormentina apparve a noi in tutta la sua magniloquente gentilezza. Prima chiamò il capo infermiere per incerottarci le ammaccature sanguinolente, poi col suo ghigno melenso:
– I signori allievi favoriscano i loro numeri e nomi. Farò loro un rapporto che ricorderanno per un pezzo!
Aveva estratto dalla saccoccia un lapis copiativo che inumidiva con la lingua; aveva fra le enormi mani un libretto, e sul suo volto aleggiava lo spirito mistico di chi dopo aver tanto atteso vedeva finalmente l’inizio del suo capolavoro letterario.
Capo Tormentina era semianalfabeta, e i suoi rapporti erano famosi. Scritti in combutta con il quartigliere e il serpante, con cui si consigliava, mandavano in sollucchero i furieri che si sganasciavano dalle risa, e fuori dai gangheri l’Aiutante Maggiore che più di una volta lo diffidò dallo scrivere certe castronerie. Ma tanta era la passione del genio incompreso che ogni volta che l’occasione lo tentava egli ci riprovava, sobillato com’era dai due complici, avvocati mancati.
Capo Tormentina! È morto nell’ultima guerra assieme al Capitano di Vascello Carlo Alberto Coraggio, che nel lontano 1932 era Comandante della Scuola.
Entrambi scomparsi in mare. Entrambi medaglie d’oro alla memoria. E questo, lettore, è sacrosantamente vero.

Chi era Capo tormentina? Descrivertelo bene mi è impossibile, ma per me è l’ultimo romantico dei marinai a vela uscito vivo dalle pagine dei racconti di Jack la Bolina. Tipi come lui, oggi non se ne vedono più in giro.
Oggi vi potranno essere forse dei buoni velisti, ma non più dei marinai a vela. La razza è scomparsa con lui. Del resto ha fatto una bella fine, come la pronosticava lui: “Chi scompare in mare ha per tetto il cielo e per fiori le stelle”.
Chi lo piange? Non ebbe prole.
Ma io ho udito il vento ultimamente fra lo strallo e la ralinga del mio ZEF lamentarsi di lui ancora dopo tanti anni. Perché Capo Tormentina aveva il vento nel naso e il tempo nei calli. E non si era mai fatto sorprendere: questo lo sapevano bene i comandanti che se lo contendevano, e il vento che non era mai riuscito a disalberarlo.
Veramente il suo nome non era Capo Tormentina. Lo avevamo soprannominato così noi allievi per uno strano gioco di simbiosi fantastica fra il nome che i marinai – specialmente i Francesi – danno a un certo tipo di fiocco, e il tormento che il poveretto soffriva per un bellissima malafemmina che lo cornificava abbondantemente.
Non se ne dava pace. Gli piaceva fare le corna ma male le tollerava. Era un marinaio anche da questo lato…
Non ricordo bene se era Maestro Velaio o d’Ascia, come specialità; ma che differenza fa? Era, ve lo assicuro, un perfetto marinaio, e per quanto suo indegno allievo – me lo rinfacciava sempre – quel poco che so sulla vela e sul governo di barche lo devo a lui.
Un poco l’età, un poco il definitivo tramonto della vela, lo avevano relegato alla nostra scuola, dove teneva concioni sull’arte dell’Istruzione Marinaresca.
Lo avevano mortificato! Si considerava un’ancora divelta. Ma non era stato sempre così! E no! Fra l’altro era stato imbarcato come mozzo sulla Stella Polare al comando del Duca degli Abruzzi giungendo fino al Polo Nord, e successivamente aveva fatto più volte il periplo della terra, sempre con il Duca, dal quale aveva imparato l’arte di navigare ed ereditato lo spirito avventuroso.
Questo oggi, lettore, ti può far sorridere, ma rapportate ai tempi erano imprese memorabili. I suoi racconti sul circolo polare artico, sull’ospitalità delle donne esquimesi (mariti consenzienti) ci lasciavano sbalorditi e a bocca aperta per la disinvoltura con cui mescolava mare, donne e navi.
Aveva un petto pieno di medaglie per aver fatto tutte le patrie battaglie, nessuna esclusa. Gli mancava il mignolo della mano destra che era rimasto al Polo nord, congelato; malgrado tutto le sue mani erano sempre due tenaglie. Per una lettera che voleva indirizzare a un marito cornuto, e che insubordinatamente l’avvocaticchio serpante si ostinava a non scrivere, per poco non strozzava il suo “segretario”.
Ma amava il mare e le navi. Le amava e le odiava, quelle che a lui non erano piaciute, nella stessa misura di come amava le donne che non aveva potuto avere.
Ci descriveva le navi dove era stato imbarcato, e ci parlava del governo delle vele gonfie al vento con la stessa sensualità con cui ci descriveva i seni dell’ultima femmina con cui si era coricato.
Era un inveterato dongiovanni. Le gonnelle erano il suo hobby preferito; non faceva alcuna discriminazione né di razza né di religione. In Marina circolavano storie esilaranti al suo riguardo.
Sembra certo che a Ismailia, per delazione del cambusiere, a salvarlo da un matrimonio musulmano fosse stato il Capo Cannoniere, precipitatosi a terra per ordine del comandante con un picchetto armato, che sbaragliò il corteo nunziale strappando Capo Tormentina dalle grinfie di una megera che lo aveva rimminchionito di bugie e di certi intrugli.
Per la verità Capo Tormentina tutta quella furia non l’aveva capita. Bastava arrivare con un paio d’ore di ritardo, perdinci!
Quando lo conobbi alla Scuola, ancora continuavano a fargli, per ordine del Ministero, la ritenuta mensile per risarcire i danni arrecati durante una lite scoppiata in una casa da the a Tientsin per amore della bella Sonja, nobile, non si sa bene se per i… lombi oppure per estrazione sociale.
Tanto era smargiasso e fedifrago con le donne, quanto di parola con l’onore.
Aveva promesso al Capo Silurista i sorci verdi per via della bella Americana che gli aveva soffiato al Pireo, e lo fece. Fu uno scherzo atroce, che solo la sua mente poteva architettare. Il Capo Silurista per quell’anno si giocò la promozione e Capo Tormentina dovettero sbarcarlo con gli arresti in fortezza per salvaguardargli l’incolumità personale.
Ma i marinai di allora ricordano ancora il Capo Silurista che in mutande, di notte, correva per la coperta impugnando la gaffa d’attracco, che se avesse colto nel segno Capo Tormentina non lo avrebbe certo risparmiato.
Era una mente vulcanica e un fisico in eterno movimento. Non vi era campo dello scibile umano dove il suo ingegno non avesse spaziato. Chi credete che abbia creato le premesse per i moderni trapianti clinici? Il noto chirurgo Barnard? Ma non fatemi ridere! Statevene zitti!
Capo Tormentina fu! Ricordo bene quando prima ne parlò con noi e poi fece delle “avances” al maggiore medico.
E veramente in un primo tempo lo stette anche a sentire quasi interessato, ma quando capì a quali organi umani alludeva lo cacciò via a male parole. Ritornato nella sua cala, dove aveva fatto casa e bottega, chiamò il suo segretario, l’avvocaticchio, e gli ordino di scrivere sotto dettatura la domanda di imbarco.
Era una delle tante che al Ministero cestinavano sistematicamente, e questo resterà un mistero che solo lui e il suo comandante Carlo Alberto Coraggio potrebbero svelare.

Ci volle l’ultima guerra per salpare l’ancora, e fu per l’ultima volta.
Scomparve in mare su un mercantile armato, lui e Carlo Alberto Coraggio, suo comandante dopo il Duca degli Abruzzi. Morirono bene, come si conviene alla gente di mare e di onore.
La morte non li trovò rimminchioniti in un letto ma in piena azione a quel posto di combattimento cui la vita che avevano scelto li aveva destinati, e per la quale il sottrarsi o il venir meno era una cosa inconcepibile, per loro. Ultimi romantici di un mondo scomparso, obbedirono alla legge non scritta da nessuna parte, per cui è tradizione che il marinaio muoia con la sua nave.
Coloro che sopravvissero alla tragedia grazie alle scialuppe di salvataggio, li ricordano entrambi al pezzo di poppa, mentre la nave affondava, che sparavano con calma, a capo scoperto e con la bandiera bene a riva sul picco.
Che premura c’era? Tanto con quell’archibugio – relitto della guerra 15-18 – i colpi non arrivavano nemmeno al sommergibile (che li aveva silurati)! Bastava tenerlo lontano dalle scialuppe dove erano stipate donne e bambini profughi della Dalmazia, e dare loro il tempo di guadagnare la costa ormai vicina.
I superstiti li videro per l’ultima volta caricare il pezzo e scomparire in una nuvola di fumo e di fuoco per un colpo del sommergibile ben centrato sulle riservette (delle munizioni).
Poi, come per tutti i marinai scomparsi in mare, l’onda pietosa stese su di loro il sudario della pietà e del silenzio.
Così scomparvero dalla scena del mondo. Erano personaggi del mare, appartenevano al mare e il mare se li è ripresi per sempre.
Lasciate però che io dica: bravo Capo Tormentina! Che tu possa per sempre riposare in pace nel seno della tua unica amante fedele: il mare.

Federico Accinni

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