C’era una volta:la delega

leoni per agnelli

Ho visto un film ieri sera, un dvd: Leoni per Agnelli, di Robert Redford.
È inquietante, e mi ha fatto pensare.
Sono andato su internet a vedere le critiche. Ne ho lette non poche, scritte con distacco ieratico e circoscritte al mondo americano: i giovani che non credono all’impegno sociale, il binomio repubblicani-democratici, l’arrivismo politico, l’asservimento dei media alle multinazionali che di fatto impediscono la libera opinione, l’indifferenza del giovane che trova comodo lasciare ad altri l’impegno. Sono tutte critiche al “sistema americano” e non pochi si compiacciono di farle. A me pare il vecchio aforisma della pagliuzza nell’occhio del vicino.
Il film ha dei pregi ma non voglio fare l’ennesima critica. Mi è venuto in mente che forse è più utile un parallelo con casa nostra. Le pecche comportamentali evidenziate dal film non sono forse anche le nostre?
Nella casella della posta elettronica ogni giorno mi arriva una petizione da firmare: contro i vitalizi dei parlamentari corrotti, contro la vivisezione, contro i mondiali di calcio. Soltanto stamattina mi è occorso di riflettere sul mio atteggiamento: le apro, le leggo e sbuffo, perché comunque anche firmandole nulla cambia.
Sto sbagliando. Da sempre nella mia vita mi sono indignato per l’indifferenza davanti alle cose sbagliate e ho pensato che non potevo farci nulla. Adesso che sono vecchiotto, mi trincero dietro l’età e dico” ci pensino i giovani”: il futuro è loro; poi guardo dalla finestra li vedo passare scalmanati e avvolti nelle bandiere dell’Italia, cantando i soliti cori da stadio mentre vanno al bar dello sport a vedere la partita. Fortunatamente l’acquazzone che è seguito ha impedito i cori del postpartita e forse anche le violenze connesse alla frustrazione che non hanno potuto sfogare.
Li guardo e penso: io ho delegato a loro il futuro, stanco ormai di indignarmi, e loro? a chi hanno delegato loro la coscienza sociale?
Ma è becero qualunquismo lamentarmi. Cosa ho dato di me per cambiare il sistema? La delega ad altri di provvedere, riservandomi il diritto di criticare!
Nel ’68 ci indignavamo e protestavamo. Qualcuno più in gamba ha cavalcato quella protesta e ci ha dato.
Cosa ci ha dato? Il benessere che addormenta la coscienza o l’equità sociale?
E allora penso che il diploma regalato, l’automobile a tutti, il cellulare novità sono gli strumenti con i quali ci siamo lasciati render schiavi. Sono stati tutti strumenti per renderci meglio sottomessi e bisognosi, incontentabili; indifferenti a come si ha, basta che si abbia.
Così è facile criticare l’America che ha esportato un modello di benessere inarrivabile in nazioni che non hanno la stessa cultura, le stesse risorse.
Oggi sento parlare, parlare, parlare; di cosa? Di tutto; e tutti hanno la ricetta per risolvere il male di vivere: delegare! I politici, le istituzioni, Dio sa chi altro, devono fare.
Bene, allora adesso taccio. La riflessione finisce qui, con quest’ultima considerazione:

God bless America, è una canzone scritta da Irving Berlin nel 1918. È un famoso canto di gratitudine per la libertà e le possibilità che offre la Nuova Terra; bellissima anche se un po’ retorica. Nessuno ha mai notato che è viziata nel titolo? È un canto d’amore agli ideali degli Stati Uniti, che però si estende a tutto il nuovo continente: l’America! Sì, perché da sempre gli States, sono l’America. Non diciamo: l’attore americano, il presidente americano, il benessere americano, inglobando tutte le altre Nazioni che non sono gli Stati Uniti?
Non siamo idealmente inglobati anche noi nell’America, giacché abbiamo importato i loro film e telefilm, il loro rock ‘n roll e rap, le loro basi Nato che Nato non sono?
E allora, perché dire che il loro sistema della gestione del potere – che addormenta l’impegno personale del singolo – criticato nel film di Redford, è un problema americano?
Ormai ovunque è America. Anche noi dovremmo cantare la canzone di Berlin.
Ed io per primo devo smetterla di indignarmi per cose che non ho fatto. Per l’impegno sociale che ho delegato.

Erberto Accinni

 

 

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