Il perdono

C’era un tempo in cui si facevano film in bianco e nero, e in non pochi di quei film succedeva che i protagonisti – dopo una serie di nefandezze – in punto di morte si pentivano e chiedevano perdono alle proprie vittime. Ne ricordo uno, “Io confesso” di Hitchcock: padre Logan riceve la confessione di un assassino e sta per essere condannato al suo posto, ma in finale la moglie dell’omicida confessa la colpa del marito che fugge, e dopo uno scontro a fuoco con la polizia, morente ammette di esser l’omicida e chiede perdono a Padre Logan.
Anche la letteratura di un tempo era cosparsa di episodi simili; l’Innominato e la Monaca di Monza sono due esempi, ma ce ne sono anche altri: il vecchio Anselmo di “Per chi suona la campana” si domanda a chi chiedere perdono per tutti i morti da lui uccisi in guerra; nella letteratura per ragazzi, persino il Corsaro Nero, innamorato di Honorata Van Guld, figlia del suo acerrimo nemico, chiede perdono per non saper adempiere al giuramento di vendetta fatto sui cadaveri dei fratelli.
L’ispettore Javert perdonato da Jean Valjean si uccide per l’incapacità di perdonare se stesso, come Giuda.
Nel mondo della musica, Giorgio di Germont avvilito dal rimorso si pente al capezzale di Violetta morente; Pinkerton non regge allo squallore del proprio comportamento verso Butterfly; senza voler apparire comico davanti a tanti preclari esempi, persino Caterina Caselli chiede perdono.
Grandi personaggi della storia hanno perdonato: tacendo di Cristo, Tommaso Moro perdona il boia che sta per decapitarlo; Nelson Mandela è l’uomo che ha insegnato al mondo il perdono, come ha detto qualcuno.
Nei fatti di cronaca recenti ricordo la vedova di uno degli agenti della scorta di Falcone che ha pronunciato la frase “Vi perdono ma inginocchiatevi”, e confesso di essere sempre perplesso se mi capita di pensarci: so che molti non la vedono così, ma mi pare un’azione condizionata a un’altra, non un vero perdono. Poiché non credo che nessuno si sia inginocchiato… li avrà perdonati davvero o resta una frase a effetto?

Non è un atto dovuto, non è di maniera, e non penso proprio che debba essere finalizzato a qualcosa. Reder, il massimo responsabile SS della strage di Marzabotto, nel 1964 per avere la libertà chiese perdono alla popolazione e non lo ottenne; nel 1984 espresse il suo pentimento per iscritto e ottenne la grazia dal Governo Craxi. Nel gennaio 1986, in un comunicato a un giornale dichiarò “Non ho bisogno di giustificarmi di niente”, attribuendo l’iniziativa del 1964 al suo difensore. Come dire: passata la festa, gabbato lo santo.

Come si fa a perdonare?
Ci sono episodi della mia vita che voglio dimenticare. Non è facile e sono quasi sicuro che difficilmente riuscirò sena passare attraverso la fase di sublimazione dei fatti, se non riuscirò a far pace con quegli accadimenti. Il perdono può aiutarmi?
Non lo so; se ripenso a certuni episodi e li lascio vagare nella mente, scopro – a distanza di anni – che hanno ancora forza; che l’angheria subita ancora mi morde dentro senza pace. Alcuni me li sono spiegati, e hanno perso un po’ della loro potenza, ma altri ancora sono vivi, cocenti e riportano la stessa sofferenza di allora.
È forse colpa dell’umiliazione subita? l’indignazione per l’ego mortificato?
Mi chiedo allora quale passaggio – che non so fare – sia necessario perché possa far pace con essi; in una parola: perdonare.
Non sono religioso, nonostante gli sforzi di molti educatori; e – dopo molti anni di riflessioni –non so nemmeno dire se sono credente. Però sono convinto che non ci sia un legame diretto fra la fede e il perdono; credo che sia una qualità nobile che in alcuni si sviluppa e in altri no, svincolata dalla fede.
E sempre una domanda mi si para innanzi: cosa non ho fatto io in una determinata occasione perché la sequenza dei fatti mi abbia portato a un epilogo che ora mi fa soffrire tanto da non poter perdonare? In altre parole: ho realmente subito o ci ho messo del mio per arrivare a quel punto che è senza ritorno? A questo punto, a chi spetta chiedere perdono: a me per me stesso? A chi per ultimo mi ha recato offesa?
Ma poiché questi è sicuro di aver agito bene… riuscirò io a compenetrarmi nel suo pensiero tanto da poterlo perdonare? Che cosa devo cedere di mio per placare il bruciore dell’offesa?
Oppure: riuscirò io a esser tanto giusto con me stesso da passare oltre; non dimenticare, ma semplicemente superare e vincere il tormento?

Chi perdona raggiunge una grandezza pari a quella di Dio?
E chi chiede perdono?
Nemmeno a questi quesiti so trovare una risposta.
Non essendo ancora riuscito a chiarire con me stesso se sono credente, mi resta soltanto uno strumento di misurazione della grandezza di un uomo: la sua nobiltà d’animo.
Deriva dall’educazione avuta? Da quanto si è letto e visto e imparato? È – come penso – una qualità insita comunque in alcuni ma non in tutti?
È possibile perdonare qualcosa ma non tutto? Se sì, ci si può considerare mezzi nobili, o più verosimilmente nobili mancati?
Perché è stato facile perdonare qualcosa e non qualcos’altro? Perché forse una cosa ci ha colpiti di striscio e un’altra invece in pieno?
Forse un episodio ha colpito il nostro amor proprio e un altro la nostra dignità?
Si tende a fare un gran mischione fra orgoglio ferito, ego, amor proprio e dignità. Forse una strada potrebbe essere chiedersi quale di questi parti di noi l’offesa subita ha realmente colpito, e lavorando su questo tentare di risolvere.

Se mai un giorno riuscirò a perdonare quelle cose che ancora mi bruciano, sarò allora come Dio o sarà un ennesimo peccato di presunzione?
Se non riuscirò a risolvere in fretta il mio dubbio se sono o no credente… a chi allora dovrò chiedere perdono per le mie colpe?
E per finire: mi sono avvitato in un dilemma senza soluzione e sarò comunque condannato per non aver fede?
Ma chi mi ha fatto così, non ha anche lui un poco di responsabilità? E a chi chiederà perdono?

E chi non perdona? Chi non ci riesce? Andrà all’inferno, o in quel che ne resta dopo le ultime revisioni ecclesiastiche che già hanno eliminato il limbo e il purgatorio?

Erberto Accinni

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