Io e l’arte

Anche se il mio secondo racconto pubblicato riguardava un pittore, io non sono mai stato capace di dipingere.
Mi piace dare la colpa di questa mia incapacità a mia madre, che quando ero piccolo pianse su un mio disegno di lei fatto all’asilo: una scatola rettangolare, con una testa piccolissima e degli stecchi al posto delle gambe e delle braccia. Mi piace credere che con quel pianto abbia stroncato in me ogni velleità espressiva nel disegno, ma forse è un alibi per la mia incapacità di riconoscere di non esser portato alla raffigurazione; è molto più comodo chiamarmi fuori e dare la responsabilità a lei.
Però la pittura mi piace anche se non so vederne le tecniche e le raffinatezze. Riconosco un dipinto a spatola da uno a pennello, ma se è a spatola o a grosse pennellate mi confondo.
Mi chiedo spesso come i pittori prima di Raffaello non usassero la prospettiva che mi sembra, da assoluto ignorante, una cosa ovvia; stesse osservazioni ho per la figura, che negli scultori è ben rappresentata mentre nei pittori dell’alto medioevo mi pare poco più che stilizzata negli affreschi.
Mi capita di guardare documentari su pittori o dipinti e rimango affascinato da tutte le cose che i critici segnalano a proposito di un quadro o un affresco: cose che io non vedo, significati simbolici, riferimenti storici e altro.
All’Università feci un lungo studio sull’affresco del Buon Governo del Palazzo Pubblico di Siena. Nel corso di Storia medievale il nostro prof dedicò due o tre ore almeno all’esame minuzioso di tutti i dettagli arricchendolo con riferimenti storici, e fu una cosa stupefacente che mi prese molto. Mi diede un’apertura su dettagli di vita medievale e mi diede spesso modo di riflettere su come il genere umano ricada sempre negli stessi errori, forse perché certuni difetti dell’animo sono e saranno sempre medievali, o per meglio dire arcaici, giacché pare che siamo molto zucconi e impariamo poco dal passato e men che mai a moderare l’egoismo.
Ma sono un profano, come ho detto, e confesso che a volte mi pare bello esserlo: guardando un quadro posso percepire le emozioni che mi trasmette senza filtrarle attraverso un esame critico. Il mio piacere è “d’impatto”, perché evoca qualcosa in me e porta a galla i sentimenti: e quelli sono miei, proprio miei, assolutamente miei anche se possono non coincidere con quelli di altri. Mi piace credere che un quadro, una statua, un racconto o una qualsiasi altra forma d’arte servano anche a questo. Dite pure che ognuno ci vede quello che vuole vedere; non è bella questa libertà?
Ho sentito dire che l’arte è inutile, che in momenti di crisi economica è l’ultima cosa che si pensa di comperare; bene! Se serve a evocare sentimenti che potrò riconoscere e applicare nella vita sociale… allora è utilissima.
Per scandagliare un po’ voglio portare qualche caso citando opere famose.

         La toilette – Toulos-Lautrec

Una figura esile, gradevole, che fa il mestiere più antico del mondo, ma che pare proporre una domanda: lo vuole davvero? Niente esprime “il mestiere” in questa figura presa di schiena, con una calza scomposta e non tesa sulla gamba come vorrebbe l’arte della seduzione. Sembra che sia stato colto un momento molto intimo, dove “essere” ricorda il contrasto con “apparire”.

I capelli sono raccolti con un nodo per non bagnarli durante il bagno nella tinozza che si vede oltre la testa: un gesto pratico e unica nota sensuale rappresentata da una ciocca che fuoriesce dal nodo e ci introduce nella intimità sconosciuta ai suoi clienti. Il dipinto sembra fermare un momento di autenticità della persona; non la prostituta ma la giovane che, seppur a gambe divaricate, pare esser ferma in una pausa a pensare a sé, impressione accentuata dall’assenza di specchi che riflettano l’immagine.

Trasmette l’impressione di aver preso un attimo di “innocenza” rubata, che smorza ogni velleità voyeuristica. Nessuna piccante malizia disturba il taglio fotografico della figura, lasciando comunque l’impressione di aver colto un’istantanea, un momento che soltanto a tratti ci si può concedere.

        Notte Stellata – Van Gogh

Mi trasmette una impressione di quiete, ma sospesa nell’attesa di qualcosa che deve accadere inevitabilmente. Il villaggio ai piedi del quadro non è avvolto nel buio: qualche lume è ancora acceso e fa pensare a qualche tardiva attività del dopocena. La spirale quasi al centro pare attrarre, come il risucchio di un gorgo, verso un mistero inquietante. Le colline blu danno l’idea di una breve tregua, e la fatalità della luce delle stelle pare rafforzare questa impressione. L’albero proteso completamente al cielo pare chiedere pietà a un dio che non ascolta, al pari del lungo campanile. L’alone attorno alla luna porta a pensare che tutto sia così da sempre, e sempre così sarà: oltre la mezzaluna, ancora pare di intravedere un tunnel che risucchia verso un vuoto che svanirà alla luce del giorno. L’impressione generale è di solitudine, di chi è condannato a vedere la vita ma non a parteciparvi.

         El tres de mayo – Goya

Lo spazio ristretto della scena raffigurata è in contrasto con la realtà: le fucilazioni prevedono una certa distanza fra il plotone d’esecuzione e il condannato; le armi paiono puntate tutte sulla figura piegata sulle ginocchia che più di tutte si nota e che pare attirare su di sé l’esecuzione come un agnello sacrificale, tanto che pare quasi in croce e il palmo della mano destra ha un foro come di chiodo. Il viso esprime quieta rassegnazione, di resa; guarda i suoi carnefici concentrati nella mira, quasi suggerendo un ripensamento che non potrà esserci. Le figure del plotone hanno una posizione aggressiva, quasi intendessero infilzare il condannato con le baionette: suggeriscono una idea di ineluttabilità del momento; i condannati in un modo o nell’altro devono morire. È un quadro assoluto: esprime morte dalla quale non si può sfuggire.

Niente è concesso alla pietà e all’orrore ritratti nelle persone più sul fondo che assistono all’esecuzione.

So di essermi infilato pretenziosamente in un campo non mio. Ma è proprio questa certezza di non sapere che mi fa amare questi quadri.

 

Li ho reinterpretati, ma quello che ho scritto è quanto ho pensato sin dal primo incontro con essi. È l’impressione che mi hanno trasmesso. Nuovi dettagli che prima non avevo notato non cambiano la prima impressione, le aggiungono soltanto qualcosa.

Erberto Accinni

 

 

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