La mia Comedia

XXXIII Canto

La bocca sollevò dal fiero pasto
quel peccator, forbendola a’ capelli
del capo ch’elli avea di retro guasto.

Poi cominciò: “Tu vuo’ ch’io rinovelli
disperato dolor che ’l cor mi preme
già pur pensando, pria ch’io ne favelli.

Ci troviamo nel nono cerchio, nella palude ghiacciata di Cocito, dove in Antenora sono puniti i traditori della patria e più avanti, nella Tolomea, i traditori dell’ospitalità.
Siamo alla fine del viaggio infernale, tra poco avverrà l’incontro con Lucifero e i tre massimi traditori. Alla sua presenza si svelerà la ragione del ghiaccio di Cocito: il lento muovere delle ali infernali di Satana.
La prima raccapricciante terzina, chi non la conosce? È preannunciata nel XXXII canto da una immagine orribile: un uomo posto sopra un altro, entrambi immersi nella ghiaccia, che gli morde il cervello. Dante gli chiede ragione di tanto orrore e si impegna, saputa la storia, a raccontarla quando tornerà nel mondo dei vivi.
Per questa preannunciata visione, il canto si apre con l’uomo sovrastante che si pulisce la bocca sui capelli dell’altro, e distogliendosi momentaneamente da quella truce vendetta inizia a raccontare. È un resoconto crudo, il cui ricordo ancora reca un dolore in chi racconta tale da arrecare odio eterno, che non potrà mai placarsi.
Ancora si augura, lo spirito, che il suo racconto “frutti infamia al traditor ch’i’ rodo”, anche se gli procurerà un ricordo doloroso che si decide a riportare in virtù della calata fiorentina che sente nelle parole di Dante.
Si qualifica: “Tu dei saper ch’i’ fui conte Ugolino,/e questi è l’arcivescovo Ruggieri” (il nipote del cardinale Ottaviano degli Ubaldini già incontrato nel X canto), e spiega che – per effetto dei contorti pensieri di quest’ultimo – fu con l’inganno catturato e infine lasciato morire. Quello che Dante non sa è quanto fu dolorosa e umiliante la sua morte.
Con questa introduzione si entra nel vivo del racconto, il più lungo di tutto l’inferno: 90 versi. Dante non interrompe mai, come già aveva fatto con Ulisse, lasciando alla voce di Ugolino il compito di scendere, parola dopo parola, nell’orrore da lui vissuto con i suoi figlioli.
Già da giorni, attraverso uno spiraglio nella Torre della Muda aveva visto la luna levarsi e tramontare fino a quello fatale, quando all’alba aveva fatto il sogno premonitore che l’aveva destato inquieto: nella trasfigurazione onirica egli era un lupo (simbolo del partito guelfo) che veniva sospinto sul Monte S. Giuliano che separa Pisa da Lucca (la salvezza per chi fugge da Pisa) assieme ai lupicini, i suoi figlioli. Erano preceduti dall’Arcivescovo, che in atteggiamento falsamente amichevole di fatto aizzava i popolani a inseguirli.
Destatosi il mattino successivo, udì i figlioli piangere nel sonno e chieder da mangiare. E così coinvolge Dante nell’inquietudine che stava salendo in lui, dicendogli che sarebbe crudele da parte sua non dolersi del suo stato d’animo.
Da questo momento scendiamo col Conte Ugolino nel dolore: era l’ora in cui solitamente era portato il cibo, ma già tutti avevano dei dubbi e quando sentirono sprangare l’uscio della torre sotto di loro lui non pianse tanto era inorridito, piangevano i suoi piccoli mentre li fissava e chiedevano conto di questo nuovo fatto.
Non rispose né quel giorno né la notte, e il mattino successivo vedendo la disperazione nei visi ebbe uno scatto e si morse le mani, gesto male interpretato dai figli che si offrono di farsi mangiare piuttosto che vederlo soffrire: “Padre, assai ci fia men doglia/se tu mangi di noi: tu ne vestisti/queste misere carni, e tu le spoglia”. Si calmò per non esasperare la situazione e tutti restarono muti fino al quarto giorno poi il primo a morire fu Gaddo, e nei due giorni successivi caddero uno ad uno gli altri, “ond’io mi diedi,/già cieco, a brancolar sovra ciascuno,/e due dì li chiamai, poi che fur morti.”
In una inesorabile discesa nell’orrore si giunge all’epilogo della narrazione:” Poscia, più che ‘l dolor, poté ‘l digiuno”. È una frase ambigua alla quale non segue spiegazione da parte del conte Ugolino. Cadde anche lui stremato dal digiuno o – ridotto al delirio – come alcuni suppongono si cibò dei suoi figli?
Il macabro racconto si chiude sull’immagine del conte che finisce di parlare e riprende rodere il cranio del suo nemico con una foga animalesca, amplificata dall’aver rivissuto – nel racconto – lo strazio di quei giorni.
Celebre è la prima invettiva dai toni biblici che Dante indirizza alla città di Pisa paragonandola a Tebe tristemente nota per i delitti familiari: “Ahi Pisa, vituperio de le genti/del bel paese là dove ‘l sì suona,”. A Pisa disonore d’Italia (il paese dove si dice sì; in Provenza si diceva oil, il moderno oui) augura che le due isole della Capraia e della Gorgona chiudano la foce dell’Arno così che esondando la anneghi, poiché nessuno dei vicini stati ha fretta di annientarla. È una condanna morale per l’empietà commessa lasciando morire di fame i figli del conte, ma anche per la falsità dell’accusa mossa a Ugolino, che di fatto, cedendo dei castelli alle rivali Lucca e Firenze aveva indebolito le difese ma aveva salvato la città dalla distruzione dopo aver perso la battaglia navale della Meloria.
Qualcuno ha inteso nei toni accorati il riflesso della sua situazione: così come il tradimento di Conte Ugolino ha coinvolto nella punizione anche i figlioli, la sua partecipazione politica alle vicende di Firenze e l’esilio hanno coinvolto i suoi figli condannandoli all’isolamento con lui.

Il cammino prosegue e si entra nella Tolomea, la terza zona del nono cerchio dove sono i traditori dell’ospitalità. Il primo incontro è con un dannato, prigioniero nel ghiaccio ma in una posizione che gli tiene il viso bloccato in alto. Due coppe di ghiaccio gli bloccano gli occhi e gli impediscono di piangere il proprio dolore. Sentendo la loro presenza li chiama e li prega di liberargli gli occhi, e Dante si impegna a farlo ma dopo che avrà detto chi è; e allora questi parla: “I’ son frate Alberigo;/i’ son quel da le frutta del mal orto,/che qui riprendo dattero per figo”. È uno di coloro che hanno tradito i doveri dell’ospitalità servendo frutta avvelenata ai suoi commensali e che ora qui sconta una pena a suo dire spropositata rispetto alla colpa.
“Oh”, diss’io lui, “or se’ tu ancor morto?”: così si stupisce Dante che lo crede ancora in vita, ed ecco la spiegazione data dal frate: “Cotal vantaggio ha questa Tolomea,/che spesse volte l’anima ci cade/innanzi ch’Atropòs mossa le dea.”. Se hai commesso un tradimento così esecrabile, la tua anima subito vien presa da un demonio che si impossessa del corpo e lo governa fino alla reale morte fisica, mentre l’anima è subito precipitata nel nono girone. Pari sorte è toccata al dannato alle sue spalle: “elli è ser Branca D’Oria, e son più anni/poscia passati ch’el fu sì racchiuso”.
Dante ha un moto di incredulità: “Io credo”, diss’io lui, “che tu m’inganni;/ché Branca D’Oria non morì unquanche,/e mangia e bee e dorme e veste panni”, ma l’altro insiste, e sostiene che ancor non era sceso all’inferno il barattiere Michele Zanche (suo suocero) che già un diavolo si era impossessato della sua anima e di quella di un parente che lo aveva aiutato a ucciderlo, trascinandoli quaggiù.
Ora che ha raccontato, frate Alberigo di nuovo supplica Dante di pulirgli gli occhi dal ghiaccio, ma “E io non gliel’apersi;/e cortesia fu lui esser villano”. Il Poeta e un convinto sostenitore della tradizione cavalleresca-cortese. Esser qui stato non-cortese (cioè villano) è – nella situazione – la prova di nobiltà d’animo e di onestà, poiché nessun uomo onesto commetterebbe un atto contro la giustizia (divina).
Ma il poeta ha da dire su questi ultimi personaggi, ed ecco la sua seconda invettiva contro una città e le nefandezze degli abitanti: “Ahi Genovesi, uomini diversi/d’ogne costume e pien d’ogne magagna/perché non siete voi del mondo spersi?”
Ché col peggiore spirto di Romagna
trovai di voi un tal, che per sua opra
in anima in Cocito già si bagna,

e in corpo par vivo ancor di sopra.

Il viaggio nell’inferno è alle ultime mosse. Nel più profondo buco lo attende l’incontro con i dannati della Giudecca e infine con “Lo ‘mperador del doloroso regno”, piantato fino al petto nella ghiaccia, i cui tre volti sono quelli del peggio dei peggio dei traditori: Giuda, Bruto e Cassio.
Virgilio dice al poeta di aggrapparsi bene a lui mentre con mosse che paion più esercizi ginnici si arrampica sul corpo di Lucifero e passa in maniera complicata la spaccatura di una roccia per trovarsi poi con le gambe di Lucifero sopra la testa ma fuori dall’inferno, nel “chiaro mondo”.
L’avventura così spaventosa nella miseria umana è alle loro spalle:

“e quindi uscimmo a riveder le stelle.”

Erberto Accinni

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